Ilva, altolà di Calenda: «Se vince il ricorso si chiude a gennaio»

di Nando Santonastaso
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Giovedì 21 Dicembre 2017, 00:17
Il paradosso più sconcertante della vicenda Ilva è che mentre lo stabilimento di Taranto, il più grande d’Europa, rischia a gennaio di chiudere (anche se occorrerebbero mesi per spegnere gli altiforni), il mercato italiano dell’acciaio tira che è un piacere.

Nei primi sette mesi dell’anno, ha rivelato il presidente di Federacciai Antonio Gozzi in occasione dell’assemblea annuale di settore, la crescita complessiva è stata di 14,5 milioni di tonnellate, l’1,8% in più rispetto allo stesso periodo del 2016. La siderurgia tricolore vale oggi 35 miliardi di euro (di fatturato) e occupa 70mila addetti tra diretti e indiretti. E’ un’industria in salute, insomma, e la considerazione vale doppio se si considera che negli ultimi 5 anni le incognite che hanno accompagnato l’Ilva non lasciavano presagire un risultato del genere. E invece l’Italia è oggi il secondo produttore e consumatore di acciaio in Europa alle spalle dell’immancabile Germania e tra i primi consumatori di acciaio pro-capite al mondo.

Quei cinque anni non sono passati però passati inosservati sul piano economico, oltre che ovviamente su quello più strettamente sociale. E bastano alcuni dati per comprendere come l’eventuale chiusura del polo pugliese riproporrebbe, ma con effetti ancora più drammatici, lo scenario vissuto dal 2012 quando gli scricchiolii finanziari del gruppo portarono alla nomina dei commissari. Secondo la Svimez, la crisi dell’Ilva è costata all’economia nazionale ben 16 miliardi di euro, l’equivalente di una manovra finanziaria e di almeno un punto di Pil. Per analizzare le sole conseguenze prodotte sull’export, tra il 2013 e il 2017 le esportazioni italiane sono state decurtate di 7,4 miliardi di euro. E non basta: sempre in base a questi calcoli, il maggiore import dall’estero, dovuto alla stasi dell’Ilva, ha toccato i 2,9 miliardi di euro, tutta ricchezza perduta come si intuisce facilmente. Per non parlare del capitolo degli investimenti fissi lordi nazionali persi, tra diretti e indiretti, per via della trasformazione dell’Ilva in un gigante da piccoli passi: la produzione è scesa dai nove milioni di tonnellate raggiunti durante la gestione Riva ai circa 6 milioni di adesso, con una minore capacità di generare valore.

E’ sicuramente vero che sul piano strettamente produttivo l’impianto di Taranto ha sempre fatto i conti con una specializzazione per così dire medio-bassa, poco innovativa cioè. È altrettanto vero però che la decisione dei commissari di non peggiorare la situazione garantendo un certo equilibrio tra costi e ricavi ha finito per assottigliare il ciclo interno e per accrescere le politiche di acquisti. Morale: gli investimenti fissi lordi persi a causa della riduzione dei costi di produzione sono stati pari a 3,7 miliardi di euro sempre nel periodo 2013-2017. Ma, osserva acutamente la Svimez nello studio firmato dall’economista Stefano Prezioso, il danno non è solo quello che si vede ma anche o forse soprattutto quello che non si vede: e cioè il crollo dello spillover, ovvero la diffusione informare di innovazione presso le piccole a medie aziende che rappresentano la quasi la totalità di clienti e fornitori del grande gruppo pugliese.

Naturalmente c’è poi tutto il capitolo dei costi sociali pagati dalla comunità sia direttamente legata all’Ilva (vedi i dipendenti) sia indirettamente ad essa collegata (vedi l’indotto). Il massiccio ricorso alla cig ha fatalmente ridotto i consumi e l’effetto sull’economia tarantina, che sui lavoratori Ilva poggia importanti fondamenta è stato choccante. Il conto fatto dalla Svimez parla di altri 2,5 miliardi persi, mezzo miliardo all’anno per cinque anni.

“Di questo passo il governo regionale pugliese rischia di istradare la vicenda verso lo stesso triste epilogo che ebbe Bagnoli” commenta un sindacalista controcorrente e impegnato in prima persona sulla vicenda come Marco Bentivogli, leader della Fim Cisl, costretto da qualche giorno a vivere sotto scorta per una serie di minacce di morte ricevute negli ultimi tempi e a quanto pare direttamente collegabili alla sua attività. A livello tecnico lo spegnimento degli altiforni tarantini, se i timori lanciati dal ministro Calenda sull’impossibilità di proseguire e concludere la trattativa con la cordata di Am Investor venissero confermati, le procedure sarebbero infatti le stesse. Non una questione di pochi giorni ma di settimane durante le quali la cessazione delle attività avverrebbe gradualmente per comprensibili ragioni di sicurezza. Per l’eventuale riaccensione si dovrebbe procedere con la stessa gradualità – settimane, dunque, non giorni – ma in questo caso con incognite nuove: l’eventuale nuovo acquirente del polo Ilva potrebbe offrire molto meno di quanto messo sul tavolo da Arcelor Mittal e Marcegaglia, soprattutto se si considera i costi tecnici di queste operazioni, tutt’altro che trascurabili.

Per non parlare ovviamente delle incognite sul riassorbimento dei lavoratori che finirebbero tutti in cassa integrazione aggravando ulteriormente, come abbiamo visto, il già pesantissimo costo sociale dell’intera vicenda. E’ per questo che in ogni fase della trattativa con la cordata che ha presentato l’offerta di acquisto più interessante, il governo non ha mai messo in discussione il mantenimento in attività dell’impianto, memore proprio del caso Bagnoli (dopo lo spegnimento, 20 anni fa, l’ex Italsider non è più tornata in vita) e di tutti i problemi produttivi appena ricordati. Un punto di non ritorno, hanno sempre sottolineato i ministri Calenda e Galletti, contrari a qualsiasi ipotesi che comportasse lo stop del sito e altrettanto fermi nel portare avanti il confronto con i potenziali nuovi acquirenti sulla base di indicazioni aggiornate e condivise anche dai sindacati, dai nuovi termini per la valutazione di impatto ambientale al tetto massimo di produzione previsto fino alla conclusine della trattativa (circa 6 milioni annue di tonnellate). Finora tutto ciò non è bastato a convincere il governatore pugliese Emiliano ma ora più che mai il rischio che il tavolo salti e si metta fine all’esperienza del più invidiato (all’estero) polo siderurgico italiano non è così remoto.
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