La crisi del Pd e la necessità di ragionare sul nome del timoniere

di Paolo Natale
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Mercoledì 27 Dicembre 2017, 00:05 - Ultimo aggiornamento: 11:03
Non va bene, il Partito democratico targato Matteo Renzi. Non sta per niente bene. Una emorragia di consensi che continua ad erodere, incessantemente, la sua base elettorale. Renzi l’aveva preso in mano quando, nel dicembre di quattro anni fa, pareva ridotto ai minimi termini. La sua storia era iniziata nel 2008 con il massimo di voti mai raggiunti alle politiche da una formazione di sinistra, con Veltroni, che riuscì nella storica impresa di fargli superare il 33%, con oltre 12 milioni di elettori che gli avevano dato fiducia.

Il suo successore Bersani, complice la grande cavalcata dei 5 Stelle, l’aveva riportato con i piedi per terra, facendogli perdere l’8% dei consensi e 3 milioni e mezzo di elettori. Poi era arrivato Renzi, con il suo impeto rottamatore della vecchia guardia e dei vecchi slogan ormai superati dalla storia. E il Pd si era subito risollevato, con un sospiro di sollievo dei militanti, degli attivisti e degli italiani che credevano nella forza riformatrice che questo nuovo vecchio partito (“L’ultimo partito”, per dirla con il nostro libro) aveva come missione al momento della sua nascita.

Alle Europee del 2014, era arrivato ad una quota di consensi inimmaginabile; benché con un numero di elettori inferiore di un milione al Pd veltroniano, quel 40%, e oltre, pareva ridare spazio e vita all’unico partito di centrosinistra vincente in tutto il continente. Il cammino era continuato poi con un certo successo anche nei mesi successivi, con stime che viaggiavano costantemente ben sopra il 30% e con l’idea che, con un nuovo sistema di voto, potesse riuscire a farcela anche contro le agguerrite truppe pentastellate.

Poi qualcosa ha cominciato ad arenarsi. Il mitico “storytelling” renziano funzionava sempre meno, le contestazioni interne diventavano più aspre, gli elettori (soprattutto quelli non di parte) non riconoscevano più a Renzi quel ruolo di innovatore del panorama politico di cui lui cercava di fregiarsi. In breve: gli italiani “non Pd” lo stavano abbandonando, fino al punto di non-ritorno del 4 dicembre dello scorso anno, con la débâcle referendaria.
La fiducia in Renzi, che superava abbondantemente il 50% degli italiani nel suo primo anno di governo, si era ridotta di almeno 20 punti, ed era destinata a diminuire ancora in breve tempo. Dopo qualche mese, le nuove primarie del Pd riportavano in vetta Matteo Renzi, più per mancanza di alternative che per vero e proprio rinnovo della fiducia. Chi altri si poteva scegliere, in quella occasione? Ma da quel momento in poi, iniziava il lento calvario del partito. Nonostante un governo Gentiloni in costante buona salute, e con iniziative anche salutate positivamente dagli italiani, buon ultimo il testamento biologico, il Pd a trazione renziana fatica a mantenere ancorato anche chi anticamente gli era vicino.

Dove sono finiti i tanti elettori del 2014? Le stime dei flussi di voto, a partire dalle Europee, ci dicono che i defezionisti si sono rivolti non soltanto a (ovvio) beneficio delle formazioni alla sua sinistra, che peraltro stentano a capitalizzarne la crisi, ma verso troppe altre direzioni, per poter riuscire facilmente a far tornare all’ovile le pecorelle smarrite.

Da allora, gli è rimasto fedele meno della metà del suo elettorato, mentre oltre il 10% preferisce oggi la sua sinistra (“Liberi e Uguali” in primo luogo, accanto a Rifondazione), un’altra quota molto simile si orienta verso i 5 stelle, una piccola percentuale si rivolge alla sua destra e un folto gruppo (il restante 25%) vira verso l’area grigia dell’astensionismo e dell’indecisione.

Oggi le stime demoscopiche, quelle peraltro più benevole, lo danno addirittura di uno-due punti sotto il Pd del 2013, quello di Bersani, che sembrava destinato a rappresentare un minimo storico per il partito. Ma alcuni sondaggi lo vedono ancor più in basso. E non è finita. Il rischio per il Partito Democratico è di diminuire ancora, nei mesi che ci separano alle prossime elezioni. Si riducesse ad una percentuale vicino al 20%, sarebbe una vera disfatta, cui si potrebbe porre fine solo con l’allontanamento più o meno coatto di Renzi.
Solo in quel modo, forse, il Pd potrebbe tornare protagonista di quel cambiamento epocale nella politica italiana che rappresentava il suo primo originale obiettivo. Pare essere questa l’ultima spiaggia.
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