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Arriva la rivoluzione, ma ha il volto del Pd

Opinionista: 

Sono appena partiti. Sembrano già alle comiche finali. Nell’attesa che il Governo passi ai fatti, le notizie che trapelano sul fronte più importante - quello economico - sono tutt’altro che rassicuranti. Veniamo a sapere, con somma incredulità, che la grande innovazione su cui starebbe lavorando l’Esecutivo sarebbe quella di spingere il deficit fino al limite del 3%, per poi chiedere all’Ue di scorporare la spesa per investimenti dal calcolo del famigerato rapporto deficit/Pil. C’è da restare basiti. Sapevamo quanto forte fosse il rischio che la rivoluzione si rivelasse un bluff, ma francamente non pensavamo si potesse arrivare a tanto. Gli italiani non sono cretini. E comunque, a scanso di equivoci, noi non lo siamo. Sapete chi è stato il primo a lanciare in campagna elettorale l’idea di aumentare il deficit al 2,9%? Matteo Renzi. Se questo è l’inizio del “cambiamento”, immaginatevi il resto. Il prestigiatore più famoso di Rignano l’aveva messo addirittura per iscritto in un libro - “Avanti” - in modo da poter rivendicare il copyright di quest’ennesima fregnaccia. Gratta gratta, alla fine l’idea che accomuna tutti ma proprio tutti i partiti, è che per realizzare le mirabolanti promesse di ciascuno ci si debba obbligatoriamente iscrivere al Partito unico della spesa pubblica a gogò. Per di più in deficit. Sarebbe questa la rivoluzione populista? Applicare le idee del Pd senza il Pd? Più che palazzo Chigi sembra Scherzi a parte. Quando Lega e M5S hanno annunciato il Governo del cambiamento, molti avevano creduto che si sarebbe rotto col passato: niente più debiti sulla pelle dei nostri figli e nipoti, ma tagli all’idrovora pubblica per finanziare meno tasse e, per questa via, innescare il circolo virtuoso dello sviluppo. Si sbagliavano. Dal conte Gentiloni al Conte dei demagoghi, di nobile resta una cosa sola: l’insopportabile senso di presa per i fondelli. Giunti a questo punto, è ormai chiaro che l’architrave della politica economica dei gialloverdi sarà la spesa pubblica in deficit. Si tratta di una misura di cui l’Italia ha già fatto largo uso e sta in tutti i programmi economici delle sinistre del mondo. È così che abbiamo accumulato 2.300 miliardi di debito pubblico. In questo modo si spiega come mai Conte, nelle sue dichiarazioni programmatiche, abbia sorvolato sul banale interrogativo di come sia possibile redistribuire reddito senza generare sviluppo e crescita. L’effetto di questa disastrosa politica economica sarà l’ulteriore aumento del debito e, di conseguenza, il sempre maggiore asservimento dell’Italia ai mercati finanziari, all’Ue e a quelle agenzie di rating che ci tengono e ancor più ci terranno in ostaggio delle loro speculazioni. Proprio coloro che a parole avevano detto di voler liberare la Nazione dalla schiavitù del potere finanziario, nei fatti si renderanno responsabili di un sempre maggiore asservimento a quei poteri. Confondere il populismo con la demagogia sudamericana dei compañeros Lula e Maduro è un’operazione da pataccari. E molto pericolosa. Il non detto di questa manovra, infatti, rischia di generare il retropensiero che alla fine l’Italia non voglia onorare i propri impegni con i creditori. Qui si gioca col fuoco. Tra fare deficit per offrire bonus elettorali e farne per pagare redditi e pensioni di cittadinanza, qual è la differenza? Se aggiungiamo che la flat tax sulle famiglie arriverà (forse) solo nel 2020 e che la richiesta all’Ue di finanziare investimenti in disavanzo è giusta, ma è la stessa formulata da tutti i governi italiani degli ultimi 15 anni (compreso l’odiato Monti), voi capite che la parola «cambiamento » su una roba del genere ha la stessa valenza della foto di un iPhone di ultima generazione su una scatola di cartone venduta in piazza Garibaldi. Un pacco dal quale stare rigorosamente alla larga.