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Non resta che diventare cittadini israeliani

Opinionista: 

C’è una cosa, tra le tante, che mi ha colpito durante l’interminabile schermaglia che ha caratterizzato la telenovela del contratto di governo tra Lega e M5S: il silenzio e l’indifferenza verso i drammatici avvenimenti della striscia di Gaza. Anche il governo in carica, a partire dal suo afono ministro degli esteri, si è guardato bene dal prendere posizione. Né mi pare che, almeno sinora, vi sia stata una qualche reazione significativa da parte del gruppo dirigente del Pd. Ci sono state condanne e inviti alla cessazione del massacro da parte delle maggiori potenze europee, dalla Gran Bretagna alla Francia e alla Russia che avevano già manifestato il proprio dissenso per la provocatoria e dissennata decisione degli Usa di riconoscere Gerusalemme come capitale dello Stato israeliano, dimenticando l’eccezionalità storica e culturale di una città che da millenni si è caratterizzata come luogo pacifico di incontro tra le tre grandi religioni monoteistiche. Ma la politica avventuristica di Trump si è ancor più manifestata col veto opposto ad una risoluzione delle Nazioni Unite che chiedeva una inchiesta internazionale sull’eccidio di Gaza. Un eccidio che buona parte della stampa ha definito, chiudendo occhi e coscienza, “scontri”, come se si potesse mettere sullo stesso piano la fionda o il sasso che si fermava ben lontano dalla barriera e il fuoco spietato dei cecchini. Uno spiraglio per appurare verità e responsabilità di una strage che ha provocato oltre 60 morti e 3000 feriti si è negli ultimi giorni aperto grazie alla decisione del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite che ha nominato una commissione d’inchiesta non solo sugli eventi delle ultime settimane, ma anche sulle violazioni dei diritti umani nei territori occupati. Non è affatto esagerato e propagandistico parlare di diritti umani, quando si è messi dinanzi a dati terribili: la sottile striscia di Gaza è abitata da quasi due milioni di abitanti costretti in una baraccopoli tossica dalla nascita alla morte (come ha affermato l’Alto Commissario per i diritti umani) con l’acqua potabile razionata e con l’elettricità ridotta a due tre ore al giorno. Ritengo vergognoso il perpetuarsi dell’isolamento internazionale che il popolo palestinese ha subito e subisce da decenni. Un isolamento che viene praticato non soltanto dai civili e democratici governi occidentali, ma anche dai cosiddetti paesi arabi fratelli, ognuno impegnato nell’egoistico scontro ora militare ora diplomatico volto a rafforzare ognuno il proprio ruolo nei drammatici fronti i guerra aperti in Siria e in Irak e del tutto indifferenti sulle sorti di un popolo definito fratello solo a parole. Basti fare l’esempio dell’Egitto che apre solo per pochi giorni all’anno il valico di Rafah, chiudendo ogni possibilità di movimento a un popolo chiuso in gabbia. Ho letto in questi giorni una intervista rilasciata da Richard Falk, professore emerito di diritto internazionale alla Princeton University che ha, senza infingimenti, parlato di un “nuovo livello di alienazione morale visibile nella normalizzazione affidata all’uccisione a sangue freddo di manifestanti disarmati”. Insomma potremmo essere all’anteprima della soluzione definitiva della questione palestinese avallata dall’. protettivo dell’America di Donald Trump. Nella mia ormai lunga vita di cittadino e studioso ho sempre odiato e combattuto ogni forma di antisemitismo e di offesa al popolo ebraico dovunque esso si trovasse e si trovi. Criticare il governo israeliano per la sua feroce opposizione al diritto dei palestinesi all’autodeterminazione, non significa essere antisemita. Così facendo l’estremismo terrorista di Hamas non si combatte, ma si alimenta con l’ingresso nelle sue fila dei ragazzi che hanno visto morire al loro fianco amici e fratelli, padri e madri. Non s’allontana dal vero il docente della Princeton quando ipotizza che siamo dinanzi a una svolta della politica del governo israeliano: convincere i palestinesi che il miraggio di riavere la loro patria è ormai svanito e che è un tema ormai ai margini della politica internazionale e dei suoi nuovi equilibri. Non resta che arrendersi e diventare, come tanti altri, cittadini israeliani, ultimi nella scala sociale, nel lavoro, nella vita quotidiana. Insomma un nuovo modello di Apartheid.