Michele Buonincontro (nella foto), napoletano, è maestro pastoraio e figlio d’arte. Suo padre Vittorio è specializzato nella costruzione delle strutture presepiali, “lo scoglio”. Aveva il laboratorio a via Foria, perché all’epoca San Gregorio Armeno non era meta di turisti per tutto l’anno come lo è attualmente, ma solamente nel periodo natalizio.

«Ho cominciato a frequentare il laboratorio di papà da adolescente, nel periodo estivo dopo la chiusura della scuola. Mi piaceva pasticciare con l’argilla. Papà era molto attento a quello che facevo anche se non lo dava a intendere. Capì che avevo un talento naturale e non faceva mai mancare in laboratorio quella materia che sotto le mie mani cominciava a prendere forma sempre più decisa».

Perché le piaceva lavorare l’argilla?

«Credo che tutti da piccoli abbiano giocato con materie plastiche tipo Pongo perché la loro versatilità consente di dare corpo a tante fantasie. Il mio secondo figlio si diverte con la “plastichina”. Io ho cominciato da adolescente e perciò con maggiore consapevolezza. Sui libri di scuola avevo appreso che l’argilla era utilizzata fin dall’antichità per molteplici usi, tra cui la realizzazione delle ceramiche. Volevo vedere come un semplice minerale, una volta idratato, si trasformava in materiale plastico facile da modellare».

Che cosa le piaceva “scolpire”?

«Inizialmente gli animali per i quali ho un trasporto affettivo molto intenso. Sono cresciuto tra i presepi e gli animali che li animano, mi affascinavano in modo particolare perché ho sempre amato la natura e i paesaggi bucolici».

Qual è stata la sua prima creazione “finita”?

 «Una pecora che va poggiata sulla spalla del pastore. Era un posizione non facile da realizzare perché il corpo doveva essere curvato in più punti e, quindi, era molto fragile. Rappresentarla in questo modo mi piace molto perché ritengo che esprima nel modo migliore la simbiosi tra animale e uomo».

Nel laboratorio c’era anche il forno per cuocere l’argilla?

«No, però papà aveva tanti amici che lo avevano e chiese la cortesia a uno di loro. La pitturazione la feci io».

Quanti anni aveva?

«Quattordici, e rappresentò il mio primo guadagno. Il laboratorio era frequentato da amici e da clienti che venivano ad acquistare le strutture costruite da mio padre. La pecora fu notata da molti. Misurava 20x15 centimetri. Papà trattò con uno di loro e la vendette per 70mila lire. Sicuramente con la complicità dell’acquirente il prezzo fu un poco “gonfiato” perché nella mente di papà doveva rappresentare per me un incentivo a continuare ».

Fu così?

«Sì. Mio padre mi disse che il mio talento andava coltivato, qualunque lavoro avessi voluto scegliere in seguito da adulto. Nel frattempo le mie creazioni mi avrebbero consentito di guadagnare delle piccole somme che avrei aggiunto alla paghetta settimanale e, se necessario, utilizzare come contributo per mantenermi agli studi».

Quindi?

«Cominciai a modellare anche qualche volto ispirandomi a fotografie di pastori del ’700 napoletano».

Quando decise che creare pastori artigianali sarebbe stato il suo lavoro definitivo?

«Negli ultimi anni del liceo scientifico. Dopo il diploma mi iscrissi all’Istituto di Belle Arti perché volevo perfezionarmi in modellatura e scultura e studiare l’anatomia del corpo umano. Ho fatto il triennio e conseguito la specializzazione».

I suoi genitori furono contenti di questa decisione?

«Papà sicuramente sì. In maniera molto discreta e senza mai fare pressioni mi aveva fatto capire in più occasioni che avrebbe desiderato che la tradizione familiare continuasse. Mamma di meno. Mi avrebbe voluto vedere avvocato o dottore commercialista, ma non mi ha mai rimproverato nulla e ha sempre rispettato la mia decisione».

Agli inizi degli anni ’80 approda a San Gregorio Armeno, il tempio dell’arte presepiale...

«Il laboratorio di papà non solo era troppo piccolo ma anche decentrato rispetto al più famoso degli “stenopoi” dell’urbanistica greca del nostro centro storico. Con l’aiuto di mio padre rilevai una bottega da un artigiano che si trova al civico n.1, a pochi metri dal chiostro di Santa Patrizia, compatrona di Napoli, famosa per il prodigio della liquefazione del suo sangue che avviene in tempi diversi rispetto a quello di San Gennaro».

La bottega è anche laboratorio?

«Sì. Papà ha continuato a realizzare le sue strutture e io i volti. Il precedente proprietario ci è stato vicino come collaboratore e ci ha avviato in questa nuova realtà fatta di tante botteghe artigianali. Attualmente mio padre realizza gli accessori in cera, tipo i cesti con la frutta, con il pane, i salumi e le carni da appendere fuori alle botteghe, e così via».

Qual è stato il primo volto che ha modellato?

«Quello di una Madonna. Lo copiai da una immagine riportata in un libro del ’700. La testa era di 7 cm ed era per un pastore alto 38 cm. I visi di donna erano i più difficili da fare. Mi padre mi diceva sempre: “impara a fare i visi di donna, perché dopo quelli degli uomini saranno molto più semplici da realizzare”. Il secondo fu quello di un angelo i cui lineamenti gentili ricordavano appunto un viso femminile. Arrivai a fare una campionatura di 25 volti dalla quale papà fece ricavare altrettanti calchi per la riproduzione. Erano i miei prototipi personalizzati ».

Entriamo un momento nel dettaglio del presepe. Che cos’è “lo scoglio”?

«È la struttura in sughero dove viene collocata la natività. Si caratterizza per il tempio romano diroccato con la colonna spezzata che simboleggia il passaggio dal paganesimo al cristianesimo. Intorno allo scoglio vengono collocate le botteghe, i balconcini, i pastori e quant’altro secondo la tradizione del presepe napoletano del ’700».

Quali sono i personaggi che non devono mai mancare?

«Oltre alla Natività e ai Magi, le figure fondamentali del presepe napoletano sono Benino, il pastorello che dorme e sogna la nascita del Bambino Gesù. È il personaggio più rappresentativo ed è posto in alto e lontano dalla grotta, all’inizio del percorso presepiale. Stefania, cioè la giovane vergine che porta un bambino in braccio. Ciccibacc ngopp a bott, un pagano tra i cristiani perché richiama Bacco, dio del vino. È raffigurato al di fuori dell’osteria con il fiasco in mano. I venditori di cibo che sono sempre dodici perché simboleggiano i mesi dell’anno. Una caratteristica del nostro presepe è che vengono rappresentate le varie etnie per dare una dimensione cosmopolita alla Natività ».

Come è fatto il pastore?

«È sempre vestito e ha la testa in argilla modellata a mano che viene cotta nel forno a 960° per circa dieci ore. Dopo la cottura vengono incastrati gli occhi che sono rigorosamente di vetro nel rispetto della nostra tradizione pastorale settecentesca. Vengono, poi, realizzati gli arti in legno. Il tutto viene montato su una sorta di manichino snodabile, fatto in fil di ferro e stoppa, e poi vestito».

Quali sono i pastori che crea?

«Quelli tradizionali che sono di quattro misure: 18, 25, 32 e 38 cm. Non potendo fare tutto e poiché la clientela lo richiede, vendo anche pastori piccoli. Alcuni li fanno i miei collaboratori, altri li compro sul mercato».

Lei, però, realizza i volti. E le altre componenti?

«Lo scheletro lo acquistavo come faccio anche oggi. Così inizialmente anche gli arti. Poi ho cominciato a realizzarli io. Le prime vestiture le facevano mia padre e mia sorella. Gli abiti venivano confezionati con le stoffe di vecchi abiti talari venduti nei mercatini. Erano di seta di San Leucio. In seguito sono nati artigiani specializzati per tipologie di personaggi. La modellatura la faccio io come anche l’assemblaggio e la colorazione».

Realizza anche statuine di personaggi contemporanei. Perché?

«Oggi le botteghe sono aperte quasi tutto l’anno e la nostra arte presepiale è conosciuta e amata in tutto il mondo. Il presepe è diventato sempre più multietnico con la globalizzazione. Ha conservato il suo simbolismo originario arricchendosi però con elementi di modernità e contemporaneità. Si è evoluto e si evolve con i tempi. Questo comporta che molte persone amano essere presenti nello “scoglio” con la statuina che li rappresenta. Anche noi artigiani, di nostra iniziativa, creiamo statuine che raffigurano personaggi del mondo della politica, delle istituzioni, della cultura e dello spettacolo».

Quali sono le statuine più richieste?

«Quelle degli sposi. La coppia vuole essere rappresentata sulla torta nuziale, oppure vuole farne dono ai testimoni, al compare d’anello o a qualche invitato particolare. Tra poco è San Valentino è abbiamo ordini fatti dal fidanzato per la fidanzata e viceversa. Durante l’intervista è entrata una coppia che mi ha chiesto la statuina di Elvis Presley. Purtroppo non l’avevo».

Quale ricorda con maggiore piacere?

«Quella che ho fatto per Angelino Alfano, quando era ministro. La tenevo esposta e quando venne a visitare San Gregorio Armeno, durante il periodo natalizio, la vide e volle acquistarla. Un’altra è quella di Fabio Cannavaro. Mi fu chiesta dal famoso calciatore tramite un amico comune ».

L’ultima che ha fatto?

«È quella di Kim Jong-un, il leader supremo della Corea del Nord, con un missile tra le mani. Me l’ha commissionata un politico per regalarla a un collega di un partito avversario in segno di sfida».

Tante fotografie appese alle pareti della sua bottega la ritraggono con personalità delle istituzioni e del mondo della cultura e dello spettacolo. Quella che la emoziona di più?

«Lo scatto con Sophia Loren. È venuta a farmi visita in occasione della sfilata delle creazioni di Dolce & Gabbana nei vicoli di Napoli. La statuina che la raffigura non l’ho fatta perché era già stata realizzata e io cerco di creare cose nuove».

Ci sarà la terza generazione dei Buonincontro?

«Ho due figli, una femminuccia di 11 anni e un maschietto di 5. La mia speranza è che rappresentino la terza generazione perché desidero fortemente che la tradizione di famiglia continui».

Il suo sogno?

«Incontrare Papa Francesco e potere creare per lui una cosa che gli piaccia e che desideri. La statuina che lo rappresenta già è stata fatta da altri».