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La politica deve costruire il futuro, non smontare quanto fatto in passato

di Gianfranco Fabi

3' di lettura

Gentile Fabi,

nelle ultime vicende politiche mi hanno colpito sia la rinuncia del presidente della Lombardia, Roberto Maroni, a ripresentare la propria candidatura, sia il fatto che la nuova Lega di Matteo Salvini ha fatto dell’abolizione della legge Fornero il punto principale del suo programma politico. Questi fatti mi sembrano collegati perché Maroni, quando era stato ministro del Lavoro, aveva dato il suo nome a una riforma, ricordata come quella dello «scalone», che andava nella stessa direzione della riforma Fornero. La storia sembra ripetersi nella direzione opposta. Dopo il Governo Berlusconi venne quello di Prodi, che si concentrò per smontare la riforma delle pensioni del centro-destra. Ora se il centro-destra andrà al Governo smonterà la riforma fatta dal Governo Monti, sostenuto da un’ampia maggioranza politica. Le pensioni sono tema sensibile sotto il profilo del consenso elettorale, ma forse il sistema (e soprattutto coloro che sono vicini alla pensione) avrebbe bisogno di certezze e garanzie di solidità a medio termine e non di essere continuamente tirato da una parte o dall’altra.

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Giorgio Pacifici

Verona

Caro Pacifici,

al di là della vicenda personale di Roberto Maroni resta il fatto che ogni sistema pensionistico, quindi non solo in Italia, dovrebbe trovare un difficile equilibrio tra il valore della stabilità, cioè quello di garantire condizioni e prestazioni a cui fare affidamento per le scelte di vita e di lavoro che ognuno deve fare, e la necessità di continui perfezionamenti per adeguarlo alla dinamiche del mondo del lavoro e della demografia. Le riforme delle pensioni appaiono altrettanto complesse, anche perché in qualche caso impopolari, quanto necessarie: soprattutto in un Paese, come l’Italia, che ha un problema di sostenibilità dei propri conti pubblici e del proprio debito.

La riforma Maroni del 2004 si poneva l’obiettivo di tenere sotto controllo la spesa pensionistica attraverso un innalzamento dell’età minima di pensionamento portandola da 57 a 60 anni dal 2008, a 61 dal 2010, a 62 nel 2014. Lo scatto maggiore avrebbe dovuto avvenire il 31 dicembre del 2007: chi entro quel giorno non avesse maturato i requisiti di contribuzione necessari avrebbe dovuto aspettare tre anni in più, anche se li avesse potuti maturare pochi giorni dopo. Fu proprio questa mancata gradualità, oltre al fatto di lasciare al Governo successivo il compito di attuare il provvedimento, ad essere oggetto di critiche e polemiche. Nel 2006 proprio la cancellazione dello scalone fu uno dei punti forti della campagna elettorale, in particolare da parte di Rifondazione comunista, e della successiva formazione del Governo di Romano Prodi. Nel luglio del 2007, in piena atmosfera di concertazione, venne così firmato da sindacati e Governo un protocollo del welfare che avviò una successiva legge che sostituì lo scalone con un sistema contraddistinto da una forte gradualità e da una minore efficacia sul fronte del contenimento della spesa. Solo pochi anni dopo, nell’estate del 2011, il tema delle pensioni è stato di nuovo al centro della polemica politica e della crisi finanziaria: fu allora la Lega, allora guidata da Umberto Bossi, a porre il veto a un innalzamento dell’età pensionabile chiesto dall’Europa al Governo Berlusconi per garantire il risanamento dei conti pubblici. La crisi portò poi alla nascita del Governo Monti e quindi della legge Fornero.

La storia ha fatto il suo corso: forse, sottolineo forse, se fosse stato mantenuto lo scalone Maroni, o comunque se ne fossero salvaguardati gli effetti, il sistema delle pensioni avrebbe potuto evitare di entrare e uscire dalle polemiche elettorali. Forse il compito dei Governi, di destra o di sinistra che siano, dovrebbe essere quello di guardare avanti e non di impegnarsi solo a smontare quello che hanno fatto i Governi precedenti.

gianfranco.fabi@ilsole24ore.com

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