trump e l’europa

L’accordo Italia-Francia nel mondo di nessuno

di Sergio Fabbrini

Pier Carlo Padoan e Arnaud De Puyfontaine - Imogoeconomica

5' di lettura

Perché è importante il discorso che il presidente Trump ha tenuto l'altro ieri a Davos? E quali sono le implicazioni di quel discorso per l'Europa? Cominciamo dalla prima domanda. Trump ha delineato con chiarezza le caratteristiche che, secondo lui, deve acquisire il mondo post-americano. Dice il vero quando sostiene che «America first (prima di tutto) non significa America alone (solitaria)». Il mondo post-americano non è un mondo senza gli Stati Uniti, ma è un mondo in cui gli Stati Uniti perseguono i propri interessi con lo scopo di massimizzare i benefici per i propri cittadini (e comunque per gli elettori del presidente). Gli Stati Uniti non sono isolazionisti (come lo furono nel corso dell'Ottocento), bensì sono portatori di un nuovo nazionalismo economico. Nuovo perché perseguito attraverso rapporti bilaterali con gli altri partner commerciali, piuttosto che attraverso il sistema multilaterale che gli stessi Stati Uniti avevano costruito nel secondo dopo-guerra. Il “sistema delle Nazioni Unite” (di cui il World Trade Organization o Wto ne è il cuore economico con i 165 Paesi che ne fanno parte) fu pensato dai New Dealers del presidente Franklin Delano Roosevelt come la “forma costituzionale” al cui interno gli Stati Uniti potevano esercitare la loro egemonia, riconoscendo però gli interessi legittimi degli altri Paesi che ne avrebbero fatto parte.

Un sistema così legittimato e inclusivo che ha resistito ai radicali cambiamenti nei rapporti di potere internazionali intervenuti dopo la fine della Guerra Fredda. Le nuove potenze (come Cina o India) hanno potuto utilizzare i sistemi (come il Wto) creati dalle vecchie potenze per affermare i loro interessi, mentre nel passato le nuove potenze avevano dovuto distruggere o sfidare i sistemi esistenti (di tipo coloniale) per vedere riconosciuto il loro nuovo potere. I vantaggi (commerciali e politici) offerti dal sistema multilaterale hanno così consentito di ridurre le vecchie (drammatiche) diseguaglianze tra nazioni povere e ricche, con l'effetto però di creare nuove (ma profonde) diseguaglianze all'interno di queste ultime. La grande conquista storica di liberare milioni e milioni di persone dalla miseria nei Paesi poveri è stata pagata con una crescente diseguaglianza economica e culturale nei Paesi ricchi.

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Inevitabilmente tale governance della globalizzazione è stata messa in discussione da settori importanti degli elettorati occidentali nell’ultimo decennio. La presidenza Trump è il risultato del malessere di quegli elettori. Ad essi risponde con una strategia più o meno comprensibile (che spesso sfugge all’attenzione per via dell’incomprensibile personalità del presidente). Quella strategia non mira al semplice protezionismo ma allo svuotamento del multilateralismo (di cui un esempio è il protratto veto americano a sostituire 3 giudici andati o che andranno in pensione, dei 7 che costituiscono l’Apellate Body del Wto ovvero l’organismo incaricato di risolvere le dispute commerciali tra i Paesi membri, mettendone a rischio il funzionamento). Se il multilateralismo consiste nella ricerca di relazioni commerciali (o politiche) capaci di generare esiti a somma positiva per gli attori che vi partecipano (anche se alcuni guadagnano di più e altri di meno da quell’esito), il bilateralismo di Trump mira invece a ottenere il più possibile per gli Stati Uniti attraverso una negoziazione diretta con l’altro partner (negoziazione che si svolge al riparo dei vincoli del multilateralismo). Ecco perché Trump non dice il vero quando sostiene che «la crescita dell’America porterà con sé la crescita degli altri Paesi». Avverrà esattamente il contrario. Insomma, il mondo post-americano delineato dal discorso di Trump ha le caratteristiche di un “No One’s World” (o mondo di nessuno), per usare la definizione dello scienziato politico americano Charles A. Kupchan, in cui ogni Paese conta per la forza di cui dispone.

Vediamo ora le implicazioni per l’Europa di un “mondo di nessuno”. Il sistema multilaterale ad egemonia americana aveva consentito all’Europa di preservare, se non addirittura di accentuare, le proprie ambiguità interne. La leadership americana aveva reso possibile la creazione di una collegialità europea che gli europei non erano in grado di creare da soli. Sul piano internazionale, l’Unione europea (Ue) ha potuto così agire come un blocco unito (ad esempio nella politica del commercio internazionale di competenza esclusiva della Commissione europea), preservando tuttavia gli interessi nazionali dei suoi stati membri in altre cruciali politiche esterne. Con gli allargamenti dello scorso decennio, però, le ambiguità europee si sono radicalizzate. Non solo nel rispetto dello stato di diritto, ma anche in questioni cruciali di politica estera, l’Europa dell’Est ha da tempo una posizione alternativa a quella dell’Europa dell’Ovest. In un modo di nessuno, una Ue così ambigua e internamente divisa non appare sostenibile. È necessario farla uscire dalla paralisi decisionale. Per questo motivo è di grande importanza l’accordo, siglato giovedì scorso, tra le due principali organizzazioni di interesse economico dell’Italia e della Francia (Confindustria e Medef), con l’appoggio dei rispettivi governi nazionali. Infatti, quell’accordo richiama la necessità di completare e riformare la governance dell’Eurozona, dotandola di un’assicurazione europea per i depositi bancari, di un’unione dei capitali, di una capacità fiscale autonoma sostenuta da una convergenza delle rispettive aliquote nazionali, di una politica industriale che favorisca anche la cooperazione nei settori della sicurezza e della difesa. È dunque dall’Eurozona che occorre partire. I Paesi che già condividono la sovranità monetaria possono costruire nuovi ambiti di condivisione della sovranità così da creare un’unione politica in grado di misurarsi con le sfide del mondo di nessuno. Si tratta di un’unione più piccola ma anche più coesa (avrebbe comunque una popolazione superiore a quella degli Stati Uniti) all’interno di un’unione più grande, ma anche meno coesa.

Nessun Paese europeo può sopravvivere, da solo, nel mondo di nessuno. Né da solo può contribuire a riformare il governo della globalizzazione. L’alternativa al bilateralismo del presidente Trump è una riforma del sistema multilaterale che coniughi l’apertura (dei mercati e della politica) con una reciprocità nei rapporti tra i membri di quel sistema. Una riforma che deve per di più fornire una risposta alle esigenze di una maggiore giustizia sociale all’interno dell’Europa. In questo contesto, la Ue non può rimanere prigioniera dei veti che la paralizzano. Come ha sostenuto il presidente francese Macron nel suo discorso tenuto a Davos mercoledì scorso, non sarà possibile un nuovo protagonismo europeo se si insiste a tenere insieme 27 Paesi. «Dobbiamo cambiare metodo - ha precisato - e smettere di aspettare che tutti siano pronti. Chi non lo è non può fermare gli altri». Si vedrà presto se questa prospettiva di multilateralismo equilibrato, l’unica che potrà contrastare la strategia squilibrata di Trump, verrà fatta propria anche dal nuovo governo tedesco oltre che dagli elettori italiani il prossimo 4 marzo.

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