Global View

I rischi delle spinte al decentramento

di Michael J. Boskin

(AP)

5' di lettura

Diversi anni fa avevo previsto che nel mondo si sarebbe verificato un movimento tettonico verso il decentramento, la secessione e l’indipendenza dovuto all’incapacità da parte delle istituzioni politiche di gestire le differenze economiche, culturali, etniche e religiose.

Le istituzioni economiche e politiche sopranazionali stavano provocando una forte reazione negativa, concentrando sempre più potere nei governi centrali. I cittadini di molti Paesi avevano cominciato a sentire che la loro sovranità era stata lesa e temevano che i costi della crescente immigrazione fossero troppo elevati data la lentezza della ripresa dovuta alla Grande recessione, alla scarsa crescita della produttività e all’assottigliarsi della quota di reddito della manodopera.

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Poi il Regno Unito ha deciso di uscire dall’Unione europea: sono ancora in corso i negoziati per regolare questo “divorzio” e stabilire quanto dovrà sborsare il Regno Unito all’Ue e quali saranno i futuri rapporti commerciali. Le trattative non sono state facili perché i negoziatori dell’Ue temono che davanti a condizioni di uscita troppo generose altri Stati membri potrebbero seguire l’esempio del Regno Unito e lasciare l’Unione.

Gli Usa, sotto la presidenza di Donald Trump, si sono ritirati dal Partenariato Transpacifico e hanno abbandonato il Partenariato Transpacifico per il Commercio e gli Investimenti con l’Ue, e ora minacciano di ritirarsi anche dall’Accordo Nordamericano di libero scambio (Nafta) se Messico e Canada non faranno concessioni.

Il 1° ottobre scorso, in Spagna, il governo della regione semiautonoma della Catalogna ha indetto un referendum al quale si stima abbia partecipato il 43% della popolazione catalana che si è espresso a favore dell’indipendenza. Dopo la dichiarazione di indipendenza del Parlamento catalano, il Governo nazionale spagnolo ha invocato una clausola costituzionale per assumere il controllo amministrativo della regione, facendo precipitare la crisi.

E più del 90% di chi ha partecipato al recente referendum in Lombardia e in Veneto, le due regioni più ricche d’Italia, ha votato per una maggiore autonomia locale. Chi ha votato sarà stato sicuramente preoccupato per il pesante debito pubblico italiano e per i sussidi alle regioni più povere, ma Giuseppe Garibaldi, il generale che ha fatto l’unità d’Italia, si starà rivoltando nella tomba.

Il Governo regionale del Kurdistan iracheno, che a fine settembre ha indetto un referendum per l’indipendenza, sta cercando di negoziare con il governo centrale di Baghdad che ha inviato le sue truppe per rivendicare i giacimenti petroliferi della regione. E il presidente cinese Xi Jinping ha sfruttato il 19esimo Congresso nazionale del Partito comunista per consolidare la sua posizione, sottraendo potere alle province per darlo al governo centrale di Pechino.

Persino in Paesi considerati da sempre stabili stiamo assistendo a una tensione evidente fra l’autorità politica centralizzata e quella decentralizzata. Per esempio, il movimento Calexit sta cercando di introdurre in California una proposta di voto sulla secessione dagli Usa. Stando alle prime proiezioni, un terzo dei californiani sarebbe d’accordo. E all’inizio di questo mese, il governatore californiano Jerry Brown ha firmato una legge che dichiara che la «California è uno Stato rifugio», un gesto perlopiù simbolico per dimostrare che la California non intende collaborare con l’Amministrazione Trump che vorrebbe applicare una legge federale sull’immigrazione.

A livello nazionale, il malaugurato tentativo dei Repubblicani di abrogare e sostituire l’Affordable Care Act del 2010 (l’Obamacare) ha cercato di dare maggiore responsabilità agli Stati attraverso i “block grants” federali, ovvero compartecipazioni a somma fissa e non più percentuale. E la proposta repubblicana di riforma fiscale attualmente in fase di discussione, eliminerebbe una deduzione fiscale federale sulle imposte locali e statali che alcuni Stati vedono come un aiuto per gli Stati ad alta imposizione come la California o New York (in realtà è il contrario, se si detraggono tutte le interazioni e i trasferimenti fiscali).

In Europa, l’Ue ha continuato a temporeggiare anziché affrontare i problemi del debito sovrano, delle banche, della crescita e della disoccupazione. I leader europei sperano che una lieve ripresa ciclica permetta loro di guadagnare tempo, ma prima o poi dovranno affrontare il grande problema: la Germania, il Paese che ha maggiormente beneficiato di un’unione monetaria nella quale i partner commerciali non hanno una moneta da deprezzare, non vuole pagare di tasca propria per salvare altri Stati membri più scialacquatori.

Non stupisce che un recente sondaggio del Pew Research Center abbia rilevato che il 70% degli europei, dei canadesi e degli americani sia a favore di una democrazia più diretta «nella quale sono i cittadini a votare le questioni importanti e non i rappresentanti eletti», il che farebbe venire i capelli dritti ai Padri fondatori degli Stati Uniti che consideravano la democrazia diretta come l’anticamera dell’oclocrazia, tanto da stabilire un sistema di contrappesi proprio per impedirlo.

Ciascuno degli esempi di centralizzazione e decentramento che ho citato è unico nel suo genere, ma è bene chiedersi se hanno dei punti in comune.
Quando il premio Nobel Robert Mundell, il «padre intellettuale dell’euro», ha cercato di stabilire un’area monetaria ottimale, ha puntato sui legami commerciali e macroeconomici naturali. Da canadese, era rimasto colpito dalla natura “orizzontale” delle aree del dollaro canadese e del dollaro americano. A suo parere, avrebbero avuto un maggior senso economico delle aree “verticali” che abbracciassero le regioni occidentali di Canada e Stati Uniti.

La visione di Mundell può essere applicata in modo più esteso. Si formano di continuo aree economiche che interagiscono e si dissolvono per via di forze centrifughe e centripete contrastanti. I continui cambiamenti nei vantaggi comparati, nelle economie di scala e nei costi di transazione si ripercuotono sui vantaggi di preferenze localizzate più omogenee.

Allo stesso modo, con il tempo, cambiano anche le zone politiche “ottimali” a causa dei cambiamenti tecnologici e demografici e della loro interazione con i fattori culturali, etnici, religiosi in costante evoluzione. Questi fenomeni di integrazione e disintegrazione possono essere positivi o negativi. L’Ue è sicuramente stata un grande successo come unione commerciale, un po’ meno come mercato integrato del lavoro e come unione monetaria, e ha fallito come unione bancaria e fiscale.

Pensiamo al subcontinente indiano, dove la diffidenza fra Paesi confinanti armati di testate nucleari rappresenta un pericolo per quelle stesse regioni, ma anche per il mondo intero. Essendo la popolazione musulmana in India rimasta quasi pari a quella del Pakistan, le tensioni religiose avrebbero potuto allentarsi entro i confini di un Paese unico. Secondo le mie stime, il volume commerciale di Pakistan e India dovrebbe essere 25 volte maggiore di quello che è, e questo andrebbe a grandissimo vantaggio di entrambi i Paesi, se non altro perché ciascuno avrebbe interesse a veder prosperare l’altro.

Governare bene in un contesto di diversità economica, politica, etnica e religiosa non è facile, ma non riuscirvi porta sostanzialmente una crescita minore e un rischio politico più elevato.

(Traduzione di Francesca Novajra)

© Project Syndicate 2017

Michael J. Boskin insegna economia alla Stanford University ed è Senior Fellow alla Hoover Institution; è stato presidente del Consiglio dei consulenti economici di George H. W. Bush dal 1989 al 1993

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