i flussi

Migranti, perché la retorica «bisogna aiutarli a casa loro» non serve a contrastare i flussi

di Andrea Goldstein

Migranti, attese oggi le proposte della Commissione Ue

3' di lettura

I fenomeni migratori sono estremamente complessi e non c’è una bacchetta magica per regolarli a mutuo beneficio di chi parte e di chi accoglie. Per questo la retorica del “bisogna-aiutarli-a-casa-loro”, che viene periodicamente predicata, ovunque e da politici di diverso orientamento e spesso insieme a un approccio “muscolare” di controllo delle frontiere e protezione dell’identità, difficilmente può servire per contrastare i flussi – e anzi nel breve periodo potrebbe avere l’effetto opposto.

La logica intuitivamente semplice è che migliori condizioni di vita rendono meno interessante l’opzione (costosa e pericolosa) di emigrare. Peccato che si scontri con la realtà, e non da ieri: già nel 1971 il geografo americano Wilbur Zelinsky aveva ipotizzato una relazione a U inversa tra migrazione e sviluppo, con la prima che aumenta insieme alla seconda prima di stabilizzarsi e poi invertirsi (effettivamente gli svizzeri o i singaporiani hanno pochi motivi per lasciare il proprio nido, a parte il meteo!). La teoria trova conferma empirica in un recente lavoro di Thu Hien Dao (francese di origine vietnamita che fa ricerca in Belgio) e coautori (tra cui un italiano che sta in California e un gallese che insegna in Australia) che propone tre spiegazioni per questo risultato apparentemente paradossale.

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Va sfatata in primo luogo la fake news secondo cui ad emigrare siano i damnés de la Terre . Al contrario, partono gli individui più qualificati, o quantomeno quelli in grado di finanziare l’emigrazione, il cui numero cresce insieme all’aumento del reddito. Anche le ineguaglianze crescono nella fase iniziale del processo di sviluppo e questo crea aspirazioni per i nascenti ceti medi e li incoraggia a partire. Infine, esistono effetti cumulativi che spingono a emigrare laddove è già presente una diaspora consistente di connazionali, perché questo facilita l’integrazione, quantomeno economica, nella terra d’accoglienza. Bisogna arrivare a 6 mila dollari di reddito medio per abitante per assistere a una diminuzione dell’emigrazione – ma 2/3 della popolazione mondiale si trova in Paesi che si situano al di sotto di questa soglia. Sulla base del tasso di crescita storico, un Paese in via di sviluppo la raggiungerebbe nel 2198; se riuscisse a triplicarlo (una possibilità quanto mai remota) ce la farebbe nel 2067 (Clemens & Postel, CGD Brief).

È vero che negli ultimi anni c’è stato un aumento degli aiuti allo sviluppo per la gestione della crisi migratoria (e si è cercato anche di contabilizzare come tali le spese per l’accoglienza in Europa). Ma anche in questo caso non è sicuro che destinare i soldi ai Paesi di origine e di transito, in Africa e altrove, perché blocchino i rifugiati sia una soluzione efficace. Uno studio di Axel Dreher su 141 Paesi nel periodo 1976-2013 mostra che i flussi da un Paese non diminuiscono all’aumentare dell’aiuto ricevuto (CEPR DP 12741). Anche se la questione è complessa: Lanati e Thiele, in particolare, evidenziano una relazione tra aiuti, più ampia disponibilità di servizi sociali e minore predisposizione dei più poveri all’emigrazione.

Che la cooperazione allo sviluppo non serva di per sé per contrastare i fenomeni migratori non significa ovviamente negarne l’utilità. Un altro gruppo assortito di studiosi ha studiato 35 paesi tra cui Cina, India, Perù e Turkmenistan, trovando che un punto percentuale in più di aiuti (come incidenza sul Pil) fa crescere il reddito pro capite dello 0,35% (NBER WP 22164). È un effetto di breve periodo e si sa quanto sia difficile misurare quello di lungo, ma suggerisce che sono risorse ben spese, a dispetto della vulgata disfattista che accomuna aiuti, sprechi e corruzione. Ma bisogna anche essere coscienti che su 71 Paesi il cui reddito medio è passato da basso a medio nell’ultimo mezzo secolo, ben 67 hanno registrato un aumento dell’emigrazione.

Cosa fare allora? Non è semplice da dire. Di per sé, tutto ciò che porta a un miglioramento sia delle condizioni di vita nei Paesi poveri, sia delle prospettive d’integrazione e affermazione professionale dei migranti è positivo per l’economia globale. Il ruolo del settore privato europeo può essere fondamentale, ed è sicuramente incoraggiante che Confindustria e le sue omologhe francese e tedesca si siano impegnate a operare insieme in e per l’Africa (anche perché la concorrenza della Cina e del resto del Global South è sempre più intensa). Va anche migliorata la coerenza delle politiche – a cosa serve investire nella diversificazione economica dell’Africa, se poi si mantengono barriere non-tariffarie alle sue esportazioni? Quello che invece non è efficace è credere che si possano fronteggiare le determinanti demografiche delle migrazioni, come l’invecchiamento dell’Europa e l’aumento dei giovani in Africa, con approcci paternalistici alla cooperazione allo sviluppo – ed è intellettualmente disonesto pretendere che lo si possa fare con pure azioni di contrasto e di ordine pubblico.

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