folkeggiando

L’era del Capitolism

di Riccardo Piaggio

 David Bowie è l’alieno Thomas Jerome Newton Copyright: © 1976 Studiocanal Films Ltd. All rights reserved

4' di lettura

Cosa sarebbe il rock, senza la sua narrazione? Giocando con l’immaginazione, sarebbe una versione for dummies delle musiche popolari del Secolo breve (il jazz, il blues, il folk). Ma, ancor più, il rock deve la sua fortuna alle sue contraddizioni; nel suo celebre saggio, lo storico Hobsbawn racconta bene il concetto: «paradossalmente, i ribelli contro le convenzioni e le restrizioni sociali condividevano i presupposti sui quali era costruita la società dei consumi di massa o almeno le motivazioni psicologiche sulle quali facevano leva con più efficacia coloro che vendevano beni e servizi ai consumatori».

E dunque, ora che il rock ha una storia, molte narrazioni e qualche contraddizione, prepariamoci a consumarlo. E, per lo meno, a farlo bene. Questa Storia, benché breve (poco più di mezzo secolo) ha comunque un peso; e per sostenerla, bisogna saperlo portare. Nel caso della monumentale opera dedicata ai 75 anni della storica etichetta Capitol Records, i quasi tre chili di carta si portano (a casa) volentieri, perché il tomo non corrisponde soltanto ad una accuratissima indagine culturale e visiva, densa di contenuti e immagini della storia del rock, ma è una compiuta opera d’arte, numerata come tutti i grandi formati che l’editore di Colonia Benedikt Taschen concepisce e realizza da oltre trent’anni. The legend of a music label. 75 years of Capitol Records è uscito alcuni mesi fa, ma il passo di volumi come questo non si misura in settimane. Sei il novanta per cento (stima per difetto) dei libri a tema musicale potrebbe serenamente vivere (o sopravvivere) su un tablet o su Kindle, e se la metà di questi forse sarebbe saggio che restassero libri possibili, in altri casi stampare un libro appare un atto necessario; succede quando la materia dell’opera coincide con il suo contenuto. Taschen, che ha appena celebrato il suo 37.5° anniversario a Los Angeles con l’exhibition A Passion for TASCHEN, è l’unico editore al mondo a vestire con una curiosa alchimia visionaria (cinquanta per cento glamour, cinquanta per cento punk) opere come la Bibbia di Lutero e monografie sulla storia e il costume della pornografia, tascabili da viaggio e tomi da collezione di oltre un metro quadrato, da sfogliare con i guanti (inclusi).

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Tutti vogliono esserci, dentro un libro Taschen (dai Rolling Stones a LaChapelle). E se il libro - come oggetto - ha un futuro, è questo. Arthur Danto, nell’antico saggio del 1981, La trasfigurazione del banale (da noi è in uscita la nuovissima edizione per Laterza), l’opera che ha maggiormente influenzato ogni dibattito ad essa successivo su filosofia dell’arte ed estetica, ci suggeriva che anche un’opera d’arte seriale (un libro, un album e oggi iTunes) porta con sé una goccia di divina unicità, come le Brillo Boxes di Warhol. La storia di Capitol Records è la fotografia della nostra cultura popolare e la metafora dell’egemonia culturale e sociale dell’american way of life. Senza, forse la globalizzazione sarebbe nata dopo e cresciuta altrove. In fondo, dal Dopoguerra in poi, gli artisti che catturavano lo spirito del tempo erano presenti anche (e forse, soprattutto) nella vecchia Europa (nel Regno Unito, in Germania e in Francia e pure nella piccola Italia); ma all’epoca le scelte arrivavano da Ovest, oltre oceano. La storia di Capitol racconta anche l’evoluzione industriale del mercato major della musica che consumiamo ogni giorno, da quasi un secolo. Il volume è suddiviso in cinque Tracks, i capitoli di Capitol che segnano le fasi generazionali della sua e della nostra storia: track one 1942–1960 / L.A. Story, track two 1960–1970, A Change of Tempo, track three 1970–1980 / A New Dawn, track four 1980–2000 / The Beat Goes On, track five 2000–Present / The Sound of Victory. Ciascuna racconta personaggi che hanno fatto o soltanto sfiorato la storia del rock’n’roll, del jazz, del folk, del pop. Tutti uniti da qualcosa che possiamo davvero definire il suono Capitol, dai Beatles agli Eagles, da Louis Armstrong ai Pink Floyd, da Merle Haggard a The Beach Boys e al crooner più celebre di sempre, Sinatra (il box set The Capitol Years del 1998 addirittura identifica un periodo creativo con quello discografico). È il suono della rivoluzione culturale della musica popolare americana. Mancano solo, per citare i due migliori cantori dell’epica americana, Dylan e Leonard Cohen (associati alla madre di tutte le etichette, la Columbia). Per la nota legge della Matrioska del capitalismo globale, oggi la gloriosa Capitol Records è una divisione di Capitol Music Group, inglobata in Universal Music Group, una delle tre sorelle dell’entertainment globale (le altre sono Sony Music and Warner Music Group).

E a chi fa capo la Universal? Alla multinazionale parigina Vivendi, fondata da Napoleone III nel 1853, un anno dopo la nascita del II° Impero (si chiamava fino al 1998 Compagnie Générale des Eaux). Storia e futuro della musica americana, che incarnò la prima grande rivoluzione culturale del Secolo breve (il Secolo americano), assieme al cinema e poi alla rivoluzione digitale, oggi sono francesi. E a Parigi nasce nel 2000 la prima boutique Taschen al di là del Reno, con questo slogan: «La diversité est ce qui pimente la vie, et c’est tout l’objectif de la boutique TASCHEN de Paris!». Essendo la musica, insieme alla fotografia e all’arte, la passione della famiglia Taschen (da gennaio, la Casa è nelle mani della figlia Marlene, che vive a Milano, dove si trova uno dei flagship store, in via Meravigli), il portfolio di libri sul tema si arricchisce, ogni anno, di preziose novità. Dopo le monografie su Rolling Stones (sold out la recente edizione a 5mila euro, firmata dai quattro) e su Dylan (ancora disponibile quella a 500 euro, Bob Dylan: A Year and a Day del fotografo Daniel Kramer) esce ora D avid Bowie. The man who fell to earth, a cura dello storico del cinema Paul Duncan (che per l’editore già ha curato i volumi su James Bond, Chaplin e Truffaut), un racconto per immagini di Bowie attore, protagonista nel 1976 del viaggio allucinato de L’uomo che cadde sulla Terra (1976), di Nicolas Roeg, prima e grande metafora dell’alieno Bowie. Senza di lui, e senza la collezione di questi grandi innovatori borghesi e capitalisti (ci piace pensare che Hobsbawn, vedendo oggi il tomo, avrebbe coniato il neologismo Capitolism) avremmo consumato forse meno, ma senz’altro peggio, per settantacinque anni.

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