«Vita di mafia» di Federico Varese

Tatuaggi, coltelli e riti: la vita «quotidiana» dei mafiosi

di Serena Uccello

4' di lettura

Soldi e sangue. Delle mafie conosciamo la violenza e i suoi effetti e la devastazione economica. Ma come si nasce, si vive, si ama (se si ama) e si muore dentro un’organizzazione criminale? Senza l’enfatizzazione da fiction è possibile, cioè, ricostruire e conoscere la quotidianità dei “criminali”. La risposta nell’ assai accurato saggio di Federico Varese dal titolo Vita di Mafia – Amore, morte e denaro. Nel cuore del crimine organizzato (Einaudi 2017, pp. 265, 19 euro). Varese che dal 2006 è professor of Criminology e direttore dell’Extra-Legal Governance Institute all’Università di Oxford è considerato uno dei più autorevoli studiosi del crimine organizzato. Fondamentali per esempio i suoi studi sulla Russia postsovietica, confluiti nel libro The Russian Mafia. Private Protection in a New Market Economy (Oxford U.P. 2001) che è stato ora tradotto in varie lingue, tra cui il cinese, ed è andato ad arricchire questo nuovo testo, pubblicato prima in lingue inglese e nelle librerie italiane da ottobre.

Tatuaggi, coltelli, riti: ecco la vita quotidiana dei mafiosi

Così come già in Mafie in movimento (Einaudi, 2011) la comparazione tra le organizzazioni è la cifra che caratterizza il lavoro di Varese, il risultato è spesso la realizzazione di un quadro articolato, convincente, spiazzante. Una reale finestra sulle mafie globali. A rendere più efficace la narrazione, la capacità di Varese di coniugare l'approfondimento accademico con lo sguardo giornalistico. Varese lascia la sua scrivania per camminare nel mondo, si sporca le scarpe e le mani, incontra testimoni e mette sotto il loro naso il suo (immaginario) microfono, entra nelle case: corre rischi. La sua scrittura ha così spesso il ritmo, e il peso, del reportage.

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Seguendolo ci muoviamo con lui da Occidente ad Oriente, dalla mafia siciliana a quella russa, fino ad arrivare alla poco conosciuta mafia giapponese, la temibile yakuza. E allora scopriamo che a Palermo, come a Mosca (anzi a Perm’), come a Bogotà esistono numerosi tratti comuni: i momenti fondamentali dell’esistenza di una organizzazione si strutturato cioè spesso con e sull’utilizzo dei medesimi riti. Un esempio? Il battesimo dei «vory», membri – crudelissimi – della mafia russa.

«È un procedimento doloroso – scrive Varese - durante il quale il disegno viene tracciato sulla pelle usando un ago e un rasoio. Le immagini religiose sono le più gettonate: il crocifisso significa che la persona è un vor autorevole, mentre le cupole di una chiesa ortodossa indicano il numero di condanne. Per i vory, il carcere è un rito di passaggio ineluttabile. L’immagine della Madonna con Bambino, ripresa dalle tradizionali icone ortodosse, significa: “Ho la coscienza pulita di fronte ai miei amici” e “Non tradirò mai”».

Su un santino giurano gli affiliati di cosa nostra, e per gli uomini della ’ndrangheta, fino a quando non sono arrivate le telecamere degli investigatori, fondamentale è stata l’annuale riunione al Santuario della Madonna di Polsi, vicino a Sal Luca, roccaforte di una delle ’ndrine più potenti e sanguinarie (vi ricordate la strage di Duisburg?). Dunque si entra a far parte dei vory in un modo assai simile a come si entra in un clan mafioso italiano. Mentre è il tema del tatuaggio a unire russi e giapponesi: «Come per i vory, il tatuaggio sulle palpebre e sul pene è molto doloroso e conferisce grande prestigio», scrive Varese.

Insomma a qualunque latitudine tutte le organizzazione sembrano fondarsi sui «riti servono a stabilire il principio di uguaglianza tra i membri. La cerimonia cancella in maniera esplicita ogni traccia della precedente posizione sociale. Non importa di chi sei figlio o la tua classe sociale: il requisito principale per essere ammessi è la volontà di abbracciare una nuova identità».

Per spiegarci come funziona l’organizzazione degli affari, Varese ci porta di nuovo in Sicilia, nella Sicilia del dopo Provenzano e Riina, mentre rientriamo tra i vory per conoscere a quali trame e strategie facciano ricorso i boss per gestire il consenso degli affiliati, dentro una complessiva faida che lascia morti sul terreno in Italia (Bari) e in Georgia, con una incursione in territorio greco. Conosciamo allora Merab e con Merab capiamo cosa sia la gestione del consenso tra gli affiliati. È l’occasione per smitizzare i boss, per restituirne, le nevrosi, le ansie, le paure. Varese riesce con abilità a tracciarne le sfumature, le contraddizioni, ad affondare l’analisi con l’occhio dello scrittore. Emerge in questo modo la pochezza di questi individui, tanto ridicoli da avere la necessità di una legittimazione attraverso la costruzione di una immagine.

«Per i mafiosi - leggiamo - i film svolgono diverse funzioni. Innanzitutto rispondono a un bisogno molto umano, il desiderio di essere ricordati: storie che finirebbero per essere gettate nel cestino della memoria collettiva si scolpiscono nella mente degli spettatori. Più in generale, i film danno ai mafiosi l’illusione che la loro vita abbia avuto un senso. È una forma di riscatto virtuale di un’esistenza tutt’altro che spettacolare».

Il testo di Varese è oggettivamente unico. Per la sua capacità di tessere in modo divulgativo un mosaico così globale e per il talento di riuscire a raccontarlo con un taglio narrativo, pienamente riuscito. Si sarebbe portati a dire un grande romanzo, se ciò non fosse ormai un modo abusato per connotare un saggio riuscito, in cui la forza è espressa soprattutto dai personaggi: ogni fenomeno, ogni aspetto analizzato vive attraverso una storia e ogni storia ha la carne e il sangue di un uomo, senza che ciò prenda alcuna deriva retorica, ma anzi mantenendo sempre la sensibilità le sfumature e il timbro giusto nel restituirle.

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