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La Cina di Jia Zhang-ke, tra melodramma e gangster

di Andrea Chimento

2' di lettura

Sulla Croisette è arrivato il turno di Jia Zhang-ke, uno dei più importanti registi cinesi in attività, che ha presentato in concorso «Ash Is Purest White».
Coerente come sempre con le tematiche che hanno reso grande il suo cinema (nel 2006 ha vinto il Leone d'oro a Venezia con «Still Life»), l'autore, con l’opera portata al Festival di Cannes, torna a ragionare sui cambiamenti in atto nella Cina contemporanea, mescolando il melodramma al genere gangster.
«Ash Is Purest White» inizia nel 2001 e arriva fino ai giorni nostri, descrivendo la tormentata storia d'amore tra un piccolo boss di provincia e la sua fidanzata. Quest'ultima si sacrifica per lui, scontando al suo posto cinque anni di galera per detenzione illecita di un'arma da fuoco: uscita di prigione, però, non lo troverà ad aspettarla e inizierà una ricerca per riuscire a rintracciarlo.

Tre anni dopo «Mountains May Depart», presentato sempre in concorso a Cannes, Jia Zhang-ke torna al festival francese con una storia divisa in più parti, così da rendere più esplicitamente i cambiamenti (sociali, in primis) avvenuti nel corso del nuovo millennio in Cina.

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Una scena tratta dal film «Ash Is Purest White» Jia Zhang-ke

Se la prima parte è incisiva e appassionante, il film scende di livello con l'approssimarsi della conclusione, sgonfiandosi da un punto di vista narrativo e rendendo sempre più faticoso il coinvolgimento, fino a giungere a un finale pretestuoso e tirato per i capelli.
Il graduale passaggio da una realtà concreta a un'altra sempre più astratta, collegato al tema della crisi d'identità dei personaggi principali (e di riflesso anche della Cina), è uno spunto importante e in grado di far riflettere, ma Jia Zhang-ke dilata eccessivamente i tempi narrativi e ci sono numerosi personaggi secondari del tutto superflui.

Tra scelte pregevoli (la notevole sequenza della sparatoria al centro del film) e momenti ridondanti (la troppo lunga ricerca del fidanzato da parte della protagonista), il risultato è un film che convince a metà, capace di emozionare soltanto a tratti, nonostante il regista si confermi un maestro nel descrivere i rapporti individuali come metafora di un ragionamento più universale.
Da segnalare che gli appassionati del cinema del regista (qui arrivato alla sua sesta partecipazione a Cannes) ritroveranno molti elementi e citazioni dei suoi film precedenti.
Una menzione va anche al belga «Girl», opera prima di Lukas Dhont.
Presentato all'interno della sezione Un Certain Regard, il film ha come protagonista Lara, che ha quindici anni e il sogno di diventare una ballerina. Il suo obiettivo, però, sembra particolarmente difficile da raggiungere per un motivo: Lara è nata nel corpo di un uomo.

Scena tratta dal film «Girl» di Lukas Dhont

Tra gli esordi visti fino a oggi a Cannes, quello di Dhont è forse il più interessante e dirompente in assoluto.
La complessa tematica transgender viene affrontata con delicatezza dal giovane regista, che dimostra già un grande coraggio drammaturgico e una certa spregiudicatezza nel trattare argomenti non semplici.
Qualcosa è indubbiamente da affinare da un punto di vista della messinscena, ma un esordio del genere non si vede tutti i giorni e sarebbe bello che questo piccolo film potesse un giorno arrivare anche nelle nostre sale.

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