sansal al festival «è storia»

«L’Europa parli dell’Islam»

di Boualem Sansal

. Boualem Sansal è nato nel 1949 in Algeria e vive a Boumerdès, nei pressi di Algeri. Alto funzionario del ministero dell’Industria algerino fino al 2003 (incarico da cui fu allontanato per i suoi scritti e le sue prese di posizione politica), ha ottenuto prestigiosi riconoscimenti

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Gli europei non lo vedono. Oppure lo percepiscono confusamente, come da lontano: il loro continente manifesta tutti i sintomi di una destabilizzazione in stadio avanzato, ormai prossima al punto di non ritorno. Una delle cause determinanti è la spaccatura delle comunità nazionali nella maggior parte dei Paesi europei, così come il profondo degrado dei rapporti fra le loro diverse componenti. Non mi riferisco qui agli storici movimenti autonomisti o indipendentisti (Corsica e Occitania in Francia, Catalogna in Spagna, Vallonia e Fiandre in Belgio, Sardegna, Sicilia e Veneto in Italia, Scozia e Irlanda nel Regno Unito e via dicendo): intendo bensì quell’ondata inarrestabile che mette di fronte, sullo stesso territorio, le comunità nazionali a quelle musulmane, per lo più frutto delle recenti migrazioni e provenienti dalle ex colonie dei Paesi europei.

Le politiche di integrazione messe in atto, pur essendo state migliorate e rafforzate di anno in anno, hanno condotto a situazioni di stallo oppure a risultati ben al di sotto delle previsioni. Ciò è accaduto perché queste hanno avuto origine da conoscenze insufficienti, per non dire errate, delle specificità e delle aspettative di questi popoli. La triste realtà è che le diverse comunità si allontanano le une dalle altre, affrontandosi qua e là non più soltanto a causa delle abituali discriminazioni che dividono le società, come la ricchezza o lo status sociale, bensì secondo criteri ben più disgreganti come la religione, la razza e i trascorsi storici. Alcuni hanno parlato di scontro di civiltà, di guerre di religione, di guerre di conquista e di rivalsa. Questa situazione mina gravemente l’unità nazionale e le fondamenta del consenso che la mantiene in vita, alimentando ovunque scontri e divisioni. Una deprecabile conseguenza di tutto ciò è che la maggior parte dei Paesi europei, i classici partiti di governo che hanno costruito l’Europa sociale, laica e liberale, perdono il consenso mentre i partiti estremisti, nazionalisti, populisti e sovranisti ne guadagnano a ritmi vertiginosi, presentandosi agli occhi della gente come l’unica possibile via d’uscita. Nel contesto attuale, sempre più turbolento, questo indebolimento della coesione nazionale ha aperto la porta a ingerenze esterne che si nutrono di queste divisioni, rafforzandole. L’Arabia Saudita e il Qatar, per esempio, hanno spinto la loro influenza quasi sovversiva fin dentro l’Europa. I Paesi di origine delle comunità musulmane europee si sono trovati quasi costretti a intervenire nella «gestione» delle proprie diaspore pur di preservarle dalle insidiose ingerenze delle monarchie del Golfo.

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Lo straniero che ama l’Europa e la visita con regolarità, come accade a me, si rende conto, viaggio dopo viaggio, che la situazione si fa più grave di anno in anno, e ora di mese in mese. In Europa soffiano venti nefasti e regna un clima pesante, spesso foriero di tempeste e carico di sospetti, rabbia, odio e paura. Un nuovo lessico si è fatto strada, e viene ripetuto fino a corrompere gli animi. Le parole che ricorrono senza sosta nelle conversazioni e nei media non instillano speranza: esse eccitano pericolosamente l’immaginazione dei giovani e delle popolazioni più esposte, confinate in banlieues moribonde (i «territori perduti della Repubblica», come vengono chiamati in Francia), e a poco a poco si instaura nel Paese un clima da guerra civile o di trincea. Le uniche parole a circolare sono: attentato, terrorismo, islamismo, musulmani, ebrei, sionismo, xenofobia, islamofobia, scontro di civiltà, corano, hadit, moschea, jihad , salafismo, antisemitismo, halal, haram (proibito), kouffar (infedele), razzismo, arabo, omofobia, separatismo, radicalizzazione, lista dei sospetti, stigmatizzazione, censura, autocensura, invasione, rifugiati, stranieri, clandestini, aggressione, barbarie, sgozzamento, delinquenza, sicurezza (o la sua assenza), estremismo, frontiere, espulsioni, riconoscimento facciale, insicurezza, furto, prigione, boat people, centro di internamento... la lista è lunga, conta circa un centinaio di termini, che io chiamo le parole della discordia. Esse ronzano sopra le nostre teste come uno sciame di mosche voraci.

Vi è tuttavia una parola che stranamente non figura tra queste: è la parola Islam, che pure è al centro della problematica in Europa, così come nel resto del mondo. Questa parola ha acquisito uno status particolare, di totale superiorità rispetto alle altre. Per i musulmani è la parola che non può essere messa in discussione. Per i non musulmani è quasi proibito pronunciarla: gli uni se lo vietano da soli nel timore di essere tacciati di islamofobia, di ricevere una fatwa o di ritrovarsi in tribunale qualora lo facessero nel modo sbagliato; gli altri si assicurano che non lo si metta mai in discussione nel timore di dar vita a polemiche che potrebbero degenerare in uno scontro aperto. I politici non la usano più, se non per recitare formule come «l’Islam è una religione di pace e tolleranza», «l’Islam è una grande religione», «l’Islam è parte integrante dell’Europa», e così via. E si cambia subito discorso.

È proprio questa forma di autocensura ad essere il problema, oggi. La situazione è abbastanza seria per aprire finalmente un dibattito centrato sull’Islam: in quanto religione, in quanto parametro di organizzazione della società, in quanto corpo giuridico, in quanto cultura.

L’Europa ne deve parlare, e dire in modo chiaro quale spazio essa vuole concedere a questa religione all’interno del proprio sistema laico e democratico, e ciò che intende fare affinché essa non sia più ciò in cui alcuni la hanno trasformata: uno strumento di conquista, un’ideologia tenebrosa che fa proseliti, che ostracizza, che divide la società e la conduce verso la guerra civile. Lo scopo è aiutare l’Europa a comprenderla, e aiutare i musulmani a rinnovare il proprio culto per renderlo un vero culto europeo, allo stesso titolo delle altre religioni come il cristianesimo o l’ebraismo.

Il silenzio è stato deleterio: è ora di spezzarlo e di parlare, di parlarsi. Dobbiamo unire le forze e incoraggiare i poteri pubblici e la società civile ad aprire questo dibattito. Lasciarlo ai margini, com’è stato fatto finora, a svilupparsi quasi in clandestinità, può condurre solo a nuove incomprensioni, divisioni e violenze.

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