ricordo di philip roth

Tenace fustigatore armato di scrittura

di Nicola Gardini

Lo scrittore statunitense Philip Milton Roth, nato a Newark, 19 marzo 1933 e scoparso a New York il 22 maggio scorpo, è stato stato uno dei più noti e premiati autori della sua generazione, considerato tra i più importanti romanzieri ebrei di lingua inglese

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Se n’è andato anche Philip Roth. Non pareva possibile, come se lui l’anagrafe non lo riguardasse, perché fino ai romanzi finali, pur tra molte ombre di morte, ha conservato l’energia degli inizi. È vero che da qualche anno non pubblicava. La tentazione di smettere, d’altra parte, apparteneva alla sua letteratura. Nella Lezione di anatomia, che è del 1983, si legge: «Sono stufo di saccheggiare la mia memoria e di nutrirmi del passato. Dal mio angolo non c’è più niente da vedere; se è mai stata la cosa che facevo meglio, ora non lo è più. Voglio avere un rapporto attivo con la vita, e voglio averlo subito. Voglio avere un rapporto attivo con me stesso» (trad. V. Mantovani). Nel 2010 si era ritirato per davvero, dopo oltre trenta libri (di cui Nemesis è l’ultimo), e lo aveva dichiarato al mondo. Ma neppure un ritiro così plateale e così – stavolta – reale aveva il tono della chiusura. Sembrava piuttosto una nuova versione della sua vitalità, un altro pugno sul tavolo; insomma, un rifiuto senile che sapeva di ribellione giovanile, con quel tanto di autolesionistico che ogni ribelle è disposto a soffrire e, prima ancora, bramoso di esibire: non una resa all’esaurimento della vena, ma ulteriore resa dei conti.

Scriveva per protesta, per risentimento, per fanatismo. Questa ormai scomoda parola si ricava da lui: «Scrivere […] era l’unica cosa per cui valesse la pena di battersi, l'esperienza inarrivabile, la lotta più nobile, e si poteva scrivere solo fanaticamente. Senza fanatismo, in letteratura, non si sarebbe mai arrivati a fare nulla di grande». (La Lezione di anatomia, trad. V. Mantovani, 1983). Con fanatica applicazione, dunque, Roth cercava di capire l’America e di stanarne le magagne, i tic, le fobie, le vergogne. Ha finito per lasciarci una collezione di magnifiche denunce. Pastorale americana (1997), Ho sposato un comunista (1998), La macchia umana (2000), Il Complotto contro l’America (2004) sono alcune delle più memorabili, pubblicate in Italia, come il resto, da Einaudi (nel 2017 è anche apparso il Meridiano Mondadori, a cura di E. Mortara e P. Simonetti).

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Ebreo di Newark, Roth ha prontamente trovato nell’ebreitudine un paradigma dell’inappartenenza e della frustrazione. L’essere ebreo, però, gli interessava come condizione universale; o meglio, come pericolo sempre incombente, che chiunque può correre, se solo osa distinguersi dal coro dei normali: quello di ritrovarsi puntato addosso, dalla sera alla mattina, il dito della società, anzi dell’intera nazione; di scoprirsi sbagliato; di apprendere che, mentre credevi di essere una persona rispettabile e di non avere nulla di cui vergognarti, stavi invece correndo a precipizio verso il vilipendio. La gente, no, non ti vuole così; non accetta i tuoi talenti, li sbeffeggia: sei troppo ricco, o troppo bravo nel tuo lavoro; te la cavi troppo bene; non sei abbastanza americano; insomma, sei di troppo. Punto. Alla gente piace buttar fango, e qualcuno su cui buttarne si troverà sempre, una buona ragione per distruggerti è presto confezionata.

In fondo, Roth, l’ebreo Roth, non ha fatto che riportare in auge il paradigma della Lettera scarlatta (1850), al tempo stesso sposandolo e confondendolo con un altro mito statunitense: l'autoaffermazione, ovvero il successo, sempre riprovevole («l’amorfa aspirazione americana di sfondare», Ho sposato un comunista), anche quando il massimo della riprovazione dovrebbe toccare a coloro che pretendono di contestartelo o di togliertelo del tutto. Roth ha messo insieme riuscita e fallimento come nessun contemporaneo, pescandoli dai più vari contesti, li ha miscelati nello stesso bicchierone, e ha decorato il cocktail con bandierine a stelle e strisce.

Ma viene in mente anche il paradigma della tragedia antica. I personaggi di Roth, infatti, hanno qualcosa di sofocleo, di antigoneo: la vocazione a contrapporsi, a non essere vittime mai, neppure nella più scandalosa e irredimibile sconfitta. E quindi sono tutti dotati di una straordinaria intelligenza, di capacità critica, di idee chiare. Le loro storie sono “casi”, casi da giornale o da tribunale, e il racconto dei loro casi si trasforma in inchiesta. Questo davvero contraddistingue la narrativa di Roth: la portata pubblica, anzi, politica, di ogni vita che mette in scena. Leggendolo, non si ha mai l’impressione che stia inventando nulla; solo raccogliendo pezzi di esperienza. Chiunque, alla fine, vive, oltre alla propria, sempre un po’ della vita della nazione. Che lo voglia o no, chiunque, vivendo, si accaparra un posto nella storia dell’America. E tragico in senso antico è anche il fatto che il conflitto sia endogeno, indigeno, civile: che americani perseguitino americani. Roth è il maggiore censore del perbenismo e della paura della diversità, qualunque ne sia la forma – il terrore del comunismo, il politically correct, il Vietnam di Nixon, l’antisemitismo, la “tirannia della decenza”, come quella che trasformò il presidente Clinton in un bugiardo sporcaccione. Ed è al tempo stesso, un appassionato difensore della dissidenza e della libertà. Di qui il suo vivace, ossessivo interesse per il sesso. Questo, lungi dal coincidere con una teoria del piacere o dell’appagamento sensuale, viene a significare un incontaminato prius, una naturalezza perfino animalesca, capace di riportare i meccanismi della società al semplice incontro di due corpi vogliosi e così di mandare all’aria secoli di ipocrisie e di costrizioni.

Roth, come crede, o almeno cerca di credere, nella bellezza del sesso, così crede nel talento individuale, nell’arte, nella scrittura. Molta della sua opera medita su tale fede, la scrittura: esigentissima, difficilissima, forse un inganno pure lei e niente più (penso a quel vertice che è Lo scrittore fantasma, 1979). E tutta quanta la sua opera, indipendentemente da quanto dice e da come lo dice, incarna tale fede proprio come scrivere, corsa della penna, pagina. In quel correre si avvertono un fervore di preghiera, una furia e una baldanza febbrile, che, infilando frasi su frasi, anche a costo di ripetizioni e pleonasmi e giri a vuoto (come in certe parti della Macchia umana), stabiliscono con il lettore una confidenza del tutto unica, una vera e propria complicità. I personaggi di Roth ti mettono sempre a parte di un guaio che non deve più restare nascosto; si confidano con te, ti danno prove. E tu, lettore, sei tirato dentro e, divenuto testimone, non puoi non sentirti invitato a giurare sulla verità. L’indignatio, infatti, pretende consensi. Sopra ho chiamato in causa il tragico. Parlando di indignatio, tiro in ballo una categoria assai diversa, eppure essenziale per Roth, la satira; e dunque, addirittura il comico. Roth è stato anche questo: un portento di comicità, come attesta già Il lamento di Portnoy (1969), il libro della prima affermazione.

Tanta varietà di temperamenti si armonizza in un’unica, unificante visione: il moralismo. Non lo dico in senso denigratorio. Philip Roth era un eccellente moralista, e non stupisce: tutti gli scrittori che concepiscono la vita individuale in termini sociali, cioè, fondamentalmente, anti-psicanalitici o anti-intimistici, proiettando pulsioni e desideri nella sfera dell’azione e del comportamento e dei ruoli canonici (il padre, la madre, la figlia, il figlio, etc.), si danno per obiettivo una revisione dei codici e delle abitudini collettive che presiedono alla creazione di felicità. Il messaggio può ben condensarsi in questo: pensa con la tua testa, non lasciarti fregare, studia e critica. Il bravo Professor Ringold di Ho sposato un comunista lo ripeteva ai suoi allievi: «La trasgressione più grande di tutte è pensare». Prendiamolo come un incoraggiamento sempre valido, tanto più in questi anni di contagiosa abulia, e una delle tante verità che il maestro Roth ci ha affidato.

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