il caso rosentopf

Il Lubitsch ritrovato, attore dongiovanni

di Andrea Martini

4' di lettura

Il cinema muto, segmento importante del patrimonio visivo del secolo scorso, resta in gran parte sepolto. Sicché ogni ritrovamento è un arricchimento della nostra memoria che, in una sorta di archeologia del contemporaneo, offre non solo il racconto del passato prossimo ma anche preziosi elementi di indagine culturale. Dalle viscere dell’oblio sono emersi venti e passa minuti di pura comicità diretti e interpretati da un giovane Ernst Lubitsch, tutto sorriso, sigaro e empatia, che di lì a poco, dalla ribalta di Hollywood si sarebbe felicemente preso gioco di tutto ciò che il secolo breve ha adorato, ideologie comprese, lasciando un’eredità di compiaciuto disincanto. Il Cinema Ritrovato (dal 23 giugno al 1°luglio, a Bologna) presenta insieme ad una versione restaurata di Rosita, prima esperienza hollywoodiana, Der Fall Rosentopf, film del 1918, considerato perduto e invece identificato e restituito a un bianco e nero d’annata dal berlinese BundesFilmarchiv. Si tratta di una delle tante pellicole, una cinquantina, per lo più scomparse, che dal 1913 per un decennio Lubitsch dapprima interpretò e poi diresse ad un ritmo incessante, rallentato dagli ultimi mesi di guerra ma non intaccato nemmeno dalle cannonate che governativi e spartachisti si scambiarono a poche centinaia di metri dagli studi di Tempelhof, luogo di tutti i suoi set.

Il caso Rosentopf è considerato come uno dei film di confine tra un primo e un secondo Lubistch berlinese. Opera di transizione da una comicità più grossolana - quella slapstick rimproveratagli da storici come Eisner e Kracauer – a una satira più fine che, pur non lasciando intravedere il rinomato touch, apre le porte a una commedia a metà strada tra burlesque e costume. Non a caso non appaiono attrici di primo piano come Ossi Oswalda, espressione di una sensualità pacata, o Pola Negri, dalla sessualità ben più aggressiva, tra le quali Lubitsch esitò a lungo nel tentativo di trovare i giusti accenti per i personaggi femminili necessari all’economia della commedia.

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Ernst Lubitsch nei panni di Sally ne «Il caso Rosentopf»

Nel Caso Rosentopf Lubitsch indossa per la penultima volta i fortunati panni di Sally, declinazione tardo guglielmina dell’ebreo arrivista, maldestro ma sveglio, ingegnoso nella ricerca del massimo profitto con il minimo sforzo come nell’esercizio del dongiovannismo, che troverà la sua apoteosi appena tre mesi dopo in Meyer aus Berlin in cui Sally assimilato e/o imborghesito, sarà protagonista di una partita a quattro familiar-teutonica. Per Lubitsch, cresciuto in una famiglia ebrea di origine russa, ben inserita in quell’area berlinese etnico-professionale nota come Konfection, dove erano concentrati negozi di tessuti e sartorie, e passato attraverso l’esperienza del teatro d’arte totale di Max Reinhardt, dove gestualità ed espressione corporale erano adattate alla coreografia del personaggio, fu naturale immedesimarsi nei vari Moritz (talvolta Abramowsky talaltra Rosenthal), oltre a Siegmund o Sally che la nascente industria cinematografica tedesca gli andava proponendo. Personaggi la cui etnia era difficilmente equivocabile ma che non potevano essere assimilati alle deformazioni caricaturali diffuse all’epoca in mezza Europa. I giovani berlinesi che il berlinese Lubitsch impersonava erano spavaldi dalla battuta pronta anche se poco disposti al sacrificio o allo studio e molto di più inclini a scalate sociali ottenute con la conquista di donne facoltose, ma pur sempre integrati. Ciò non impedisce a pellicole come Schuhpalast Pinkus di attribuire comunque all’ebreo quelle peculiarità caratteriali negative, o perlomeno asociali. Sicuramente le figure messe in scena non potevano essere prese, nemmeno all’epoca - senza pensare all’uso che ne avrebbe fatto la propaganda nazista - come semplici espressioni di un antisemitismo bonario (di fatto un ossimoro), animato dallo steso humour ebraico per il quale l’ebreo ride di sé stesso e delle derisioni di cui è fatto oggetto.

Il Lubitsch di Sally, protagonista del Caso Rosentopf, non si discosta molto dalla lunga teoria di maschere comiche comuni a tutte le culture cinematografiche dell’epoca, ma se il rotear degli occhi, la meccanicità del corpo, l’iterazione delle movenze sono equiparabili, diversa è la plausibilità offerta al personaggio che di quel corredo non fa un’arma di difesa rispetto alle disavventure che il destino gli riserba, ma un formidabile strumento di conquista e di affermazione. Sally è qui un aiuto-detective che intascato l’anticipo dal capo lo consuma offrendo champagne a quattro segretarie per poi stancamente mettersi alla ricerca di chi abbia fatto cadere il vaso di fiori assassino, cui allude il titolo. Sally che non ha intenzione di stancarsi troppo pensa di risolvere il caso chiedendo a chi abita nel palazzo se non abbia fatto cascare un vaso e quando la richiesta irrita un borghese inamidato ne riceve uno schiaffo. Ma poiché al tizio nell’assestare il manrovescio scivolano dalla tasca dei denari, subito raccolti da Sally, è possibile mettere in bocca al protagonista la compiaciuta affermazione, ben più che ambigua, vorrei prendere uno schiaffo al giorno. Il tema del denaro è naturalmente contiguo a quello della sessualità: Sally s’introduce nell’abitazione della ballerina Spaketti dove nell’enfasi della facile conquista scivola, come Harold Lloyd, sul pavimento lucidato, cosparge la testa e il corpo di profumi, come Charlot, suona il piano con apparente virtuosismo, come farà Chico Marx. Ma soprattutto il frenetico gioco di andirivieni nelle stanze dell’appartamento creano un modello per gli scambi e gli equivoci della seduzione alla base delle commedie hollywoodiane.

Non si può chiedere ai venti minuti del Caso Rosentopf, di rivelare un intero universo sommerso composto da qualche decina di film scomparsi ma per sineddoche si possono osservare atteggiamenti e inclinazioni che Lubitsch ha mostrato in altre occasioni: l’uso degli stereotipi del milieu ebraico serve al regista, che ne rovescia il significato, come potenziale critico per canzonare tutti gli ambienti che quel milieu circondano. Forse anche per questo Lubitsch, una volta passato dietro alla macchina da presa, non abbandonò quella fortunata serie e continuò a interpretare Sally, di volta in volta con cognomi diversi - Meyer, Pinkus, Katz - o come nel Caso Rosentopf semplicemente Sally.

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