globalizzazione

Il «cloud» rottama la delocalizzazione

di Micaela Cappellini

(Afp)

3' di lettura

All’inizio dell’anno Infosys, il colosso indiano dell’It che offre i suoi servizi in outsourcing a parecchie multinazionali globali, ha implementato un avveniristico software intelligente. Talmente efficiente da non rendere più necessaria la presenza di 11mila dipendenti. Anche la rivale Wipro, a marzo, ha completato l’installazione di un omologo strumento, che è costato il posto di lavoro a 12mila addetti.

Benvenuti nell’era della delocalizzazione 2.0. Non serve più trasferire alcune funzioni produttive all’estero là dove il lavoro costa meno. Grazie ai progressi dell’automazione, è sufficiente trasferire queste funzioni sul cloud. Con buona pace della forza lavoro di quei Paesi emergenti che si stavano costruendo un futuro economico anche grazie all’outsourcing.

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Che questa nuova fase della divisione globale del lavoro fosse iniziata ne hanno avuto sentore gli esperti di AtKearney, osservando alcuni Paesi simbolo della delocalizzazione: come l’India, tra i pionieri del processo; come la Polonia, tra le mete predilette delle imprese europee; e come le Filippine, la cui competitività basata sul basso costo del lavoro si è andata imponendo soltanto di recente. Sotto la lente gli esperti hanno messo il comparto dei servizi, da quelli It a quelli contabili, passando per la gestione dei processi amministrativi e fino ai call center. Quindi hanno incrociato i dati: il risultato è che nel giro di cinque anni soltanto in questi tre Paesi la mancata delocalizzazione per colpa dell’automazione produrrà circa 400mila disoccupati. In media, si tratta di una perdita secca di posti di lavoro del 20%.

Chi ci guadagna, invece, con l’automazione informatica? Naturalmente, i Paesi che la producono e quelli che possono farne uso richiamando entro i propri confini quei processi che fino ad ora avevano delocalizzato. In soldoni, gli Stati Uniti, il Regno Unito, la Francia e la Germania. Lo studio di ATKearney in particolare prende in esame gli Usa, dove l’esternalizzazione dei servizi amministrativi, contabili e di assistenza ai clienti ha creato un esercito di 3,4 milioni di lavoratori. Di questi, il 21% è destinato a perdere il lavoro e ad essere sostituito dalle macchine, ma è anche vero che uno ogni quattro di questi posti persi tornerà sotto forma di nuova occupazione: perché l’automazione sì distrugge lavoro, ma anche ne genera di nuovo per gli sviluppatori software e gli amministratori di sistema. Tutti impieghi di fascia alta e ad elevata retribuzione.

LA MAPPA DELLA CELOCALIZZAZIONE

Indice di attrattività dei Paesi per l'outsourcing di servizi

LA MAPPA DELLA CELOCALIZZAZIONE

Il caso dell’Italia è simile a quello degli Usa, solo con numeri inferiori: «A grandi linee, possiamo immaginare che l’esternalizzazione di questi servizi da parte delle aziende italiane abbia generato occupazione per circa 500mila addetti - spiega Andrea Majoli, partner di ATKearney - in una prima fase queste funzioni sono state delocalizzate nel Sud Italia, grazie anche agli incentivi al settore. Poi, alla ricerca di costi ancora più ridotti, le nostre aziende hanno guardato a quei Paesi dove fosse possibile trovare chi parlasse anche la lingua italiana: prima la Romania e il Sudamerica, più recentemente l’Albania e il resto dei Balcani. Così come per gli Usa, però, il diffondersi dei software intelligenti apre anche per l’Italia un futuro fatto di reshoring: nuova occupazione di fascia alta si creerà nel nostro Paese per scrivere e gestire questi nuovi sistemi informatici automatizzati».

Così come l’India, la Polonia e le Filippine, invece, ci sono molte economie potenzialmente destinate a pagare il prezzo del reshoring. In Europa, tra le mete preferite dalla delocalizzazione dei servizi - in questo caso di quelli più avanzati, dalla finanza alla gestione amministrativa - oltre alla Polonia ci sono l’Ungheria, la Romania e la Repubblica ceca. Tra le destinazioni dell’outsourcing di fascia alta, nel mondo, ci sono anche il Messico e il Costa Rica. Sulla linea delle Filippine, invece, che sono diventate una destinazione appetibile soprattutto per i servizi di assistenza clienti - come per esempio i call e i contact center - oggi si trovano anche Paesi come il Sudafrica, il Marocco e la Tunisia.

In ogni caso, il processo di automazione che segnerà il declino di un certo tipo di delocalizzazione produttiva è solo all’inizio. In questa fase, insomma, è ancora possibile incontrare chi esternalizza e chi a sua volta cerca di attirare le imprese straniere. Secondo la classifica 2017 di ATKearney delle migliori mete mondiali per la delocalizzazione dei servizi, al primo posto resta l’India, con 500 imprese posizionate nel settore, 1,1 milione di addetti e 200 multinazionali clienti provenienti da oltre 66 Paesi. Al secondo posto c’è la Cina e, al terzo, la Malaysia, meta preferita dalle imprese farmaceutiche ma specializzata anche nel gaming e nei software per l’animazione. Salgono nella classifica la Colombia, il Perù, l’Egitto, lo Sri Lanka e la Repubblica ceca, tutte mete tra le top 20; scendono, invece, il Messico, la Romania e la Bulgaria.

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