calcio e politica

Ecco perché il caso Piqué spacca la Nazionale spagnola

di Mattia Losi

Un tifoso spagnolo espone un cartello contro il catalano Piqué prima di un allenamento (Reuters)

3' di lettura

La Nazionale spagnola, in ritiro prima delle ultime gare del girone di qualificazione ai Mondiali del prossimo anno, vive un momento difficile per la spaccatura che si è creata tra due giocatori simbolo: da un lato Sergio Ramos, il capitano, dall’altro Gerard Piqué. Entrambi hanno un palmares personale da far invidia a molti club, che sognano di mettere insieme titoli mondiali, europei e Champions in misura paragonabile ai due campioni. Entrambi, rivali con le rispettive squadre (Real Madrid e Barcellona) hanno festeggiato abbracciandosi i trionfi della Nazionale. Ed entrambi hanno più volte dichiarato di essere pronti a sostenersi a vicenda, «qualunque cosa accada».

Peccato che oggi quel «qualunque cosa accada» sia più grande di loro. E si chiami indipendenza della Catalogna. Avversata da Sergio Ramos, spagnolo a tutto tondo, sostenuta con forza da Piqué, anche lui spagnolo ma di una zona molto particolare della Spagna: la Catalogna, appunto, visto che è nato nella capitale della medesima. A Barcellona. Il suo amico, o forse ormai ex-amico Sergio Ramos, qualche tempo fa si era schierato al suo fianco chiedendo ai tifosi del Real Madrid di non fischiarlo quando scendeva in campo con la maglia rossa della Nazionale. Ma oggi la posta in gioco è molto più alta, travalica le linee bianche che delimitano il verde del rettangolo di gioco e sconfina nelle ben più sterminate e infide praterie della politica.

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Così Ramos molla Piqué. È costretto a farlo, al di là dei reali sentimenti personali di cui, forse, sapremo qualcosa tra qualche decina d’anni. Lui è il capitano della Spagna e non può, in quanto simbolo massimo della squadra, retrocedere di un solo passo sull’indivisibilità del Paese. Anche se il compagno di cento battaglie e di cento vittorie rischia di essere estromesso, di lasciare il ritiro e di chiudere per sempre con la Nazionale.

D’altro canto nemmeno Piqué può mollare, e sarà molto difficile riuscire a convincerlo, o quantomeno a costringerlo. Non può per coerenza, perché per lui la Catalogna non è una scoperta referendaria dell’ultima settimana. Dopo la vittoria del Mondiale in Sudafrica, nel 2010, mentre tutti i suoi compagni festeggiavano girando intorno al campo con la bandiera della Spagna, lui faceva la stessa identica cosa: sventolando però un’altra bandiera, quella catalana. Sotto gli occhi di tutto il mondo. Non ha mai avuto dubbi, non ha mai nascosto le sue idee. Scomodo, ma coerente.

Piqué non può mollare anche perché, da catalano vero, non può aggiungere un’altra ferita a quella che il Barcellona ha inferto ai suoi tifosi scendendo in campo, anche se a porte chiuse, nell’ultima giornata di campionato. Tutti in Catalogna si aspettavano il gran rifiuto. Come del resto era stato dichiarato in un primo tempo. Poi la Federazione spagnola ha chiarito il costo della mancata discesa in campo: partita persa a tavolina e tre punti di penalizzazione. In tutto 6 punti da buttare nel cestino della spazzatura. Così, pare dopo un voto nello spogliatoio, hanno deciso i giocatori: che a maggioranza hanno scelto di giocare. A porte chiuse, ma di giocare.

Per i catalani è stato un tradimento: difficile da capire, per il tifo di casa nostra, ma da quelle parti il Barcellona non è solo una squadra. La scritta «Més que un club» che campeggia sugli spalti del Camp Nou non è una trovata pubblicitaria. Racconta l’amore per quello che è sempre stato considerato, da quelle parti, l’esercito disarmato della Catalogna, destinato a rappresentarla nel mondo. Un legame che si è fatto ancor più forte negli ultimi anni, segnati da un sequenza interminabile di trionfi. Un legame che in molti hanno sentito strapparsi di colpo, con la partita a porte chiuse, vivendolo come un tradimento. Una fuga davanti alla prima minaccia del nemico.

Piqué è di Barcellona, è cresciuto a Barcellona e vive a Barcellona respirandone gli umori. Difficile credere che accetti di fare un passo indietro o, perlomeno, di lato. Perché lo sport, come scriviamo fin troppe volte, deve saper resistere alle logiche della politica, esercitare un ruolo di unione e fratellanza, fare da grimaldello diplomatico quando tutte le strade sembrano chiudersi. Ma alla fine, che si tratti di Mondiali, Olimpiadi o convocazioni in Nazionale, è la politica a dire l’ultima parola. Sempre.

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