GOLFO

Macron grande mediatore tra Libano e sauditi

di Alberto Negri

(AP)

4' di lettura

Nel Golfo e in Medio Oriente la pace e la guerra, così come la ricchezza delle nazioni e la miseria dei popoli, corrono su un filo teso e sottile. La Francia conosce bene questo gioco dove ancora compone e scompone i vecchi frammenti dell’impero coloniale con qualche mai sopita ambizione di grandeur. Mediare, temperare, rassicurare e, soprattutto, vendere: questo il mantra della diplomazia di Parigi nella regione.

L’ultima mossa francese ha avuto come scintillante palcoscenico l’inaugurazione del “Louvre di sabbia” ad Abu Dhabi. Con la mediazione degli Emirati, il presidente francese Emmanuel Macron e il suo ministro degli Esteri Jean-Yves Le Drian hanno ottenuto dall’Arabia Saudita il rilascio di Saad Hariri, premier dimissionario libanese: un colpo di diplomatico dai rivolti complessi, risultato dell’attivismo di Parigi e di una montagna di affari, soprattutto nel campo degli armamenti.

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I Paesi del Golfo - mentre sale la tensione con l’Iran accompagnata da un patto anti-sciita tra sauditi e israeliani - sono entrati in una nuova fase di corsa al riarmo, di cui stanno approfittando non solo i francesi ma anche gli americani, che fanno ovviamente la parte del leone, gli inglesi e gli italiani (28 F-200 al Kuwait nel 2016). Giusto per avere un’idea l’Arabia Saudita, impantanata nella guerra in Yemen - definita dall’Onu la peggiore crisi umanitaria mondiale - ha speso nel 2016 per la difesa 64 miliardi di dollari (la Russia 69), gli Emirati 23, con una popolazione di soli 1,5 milioni, l’Iran 12 con 80 milioni di abitanti.

La Francia nel 2016 ha battuto tutti i suoi record nell’export di armi con 20 miliardi di euro. Sarkozy era definito il “qatarino” per i suoi rapporti con Doha: il Qatar oggi ha ancora 25 miliardi di euro investiti in Francia e partecipazioni in aziende strategiche. Hollande era chiamato il “saudita” per le vendite di armi a Riad destinate a bombardare lo Yemen (cosa che ha fatto anche l’Italia). Macron passa alle cronache come l’”emiratino”: non solo per il Louvre dell’architetto Jean Nouvel (un miliardo di euro la concessione del marchio) ma perché la Francia, forte anche della base militare di Mina Zayed, esporta a tutto spiano agli Emirati - secondo partner nel Golfo dopo i sauditi - citati dal presidente francese nel suo discorso all’Onu come partner «essenziale» nella lotta al terrorismo.

In realtà la base di Zayed, con quella aerea di Al Dhafra, le teste di ponte a Gibuti e Mayotte nell’Oceano Indiano, costituiscono un vasto poligono dove i francesi mostrano la bandiera su un’area che custodisce il 60% delle riserve mondiali di petrolio, il 40% di quelle di gas e il 60% di uranio.

L’Arabia Saudita e gli Emirati sono anche un partner fondamentale nel triangolo finanziario per la vendita di aerei Rafale, fregate e missili all’Egitto: non a caso Macron, sorvolando sulla questione dei diritti umani, ha cordialmente ricevuto all’Eliseo il presidente-generale Al Sisi. La partnership con la Francia è anche politica oltre che militare per il ruolo dell’Egitto in Libia a sostegno del generale Khalifa Haftar, dove Parigi manovra tra Tobruk e Tripoli.

La politica francese nel Golfo, come quella americana ed europea, scorre sul ricco ma scivoloso binario dei petrodollari e delle forniture di armamenti. Parigi sa perfettamente che mantenere rapporti equidistanti con questi protagonisti è assai complicato: il Qatar vive dal 5 giugno scorso una sorta di stato d’assedio imposto da Riad ma anche dagli Emirati. L’equilibrio diventa ancora più oscillante nel campo della guerra al terrorismo e all’Isis: sauditi ed emiratini, dopo avere appoggiato i gruppi jihadisti in funzione anti-Assad e anti-iraniana, si stanno sganciando e misurano con crescente nervosismo le conseguenze della sconfitta in Siria subita con l’intervento della Russia, dell’Iran e degli Hezbollah. Il Qatar, cui Parigi nel 2016 ha venduto 24 caccia Rafale, ora si appoggia a Teheran e alla Turchia, che ha voltato le spalle alla Nato e al fronte sunnita per allearsi con Putin e Teheran (pronti a celebrare il 22 novembre a Sochi un vertice a tre sulla Siria).

La stessa mediazione francese per Hariri presenta qualche ambiguità. Se è vero che il principe ereditario Mohammed bin Salman, in procinto di succedere al padre mettendo agli arresti i rivali e incamerando parte dei loro patrimoni, andrà a Parigi l’anno prossimo, Macron a Riad, dove come ministro dell’Economia aveva perfezionato 12 miliardi di contratti, non è stato ricevuto dal re Salman e l’intervento degli Emirati è stato decisivo, così come lo fu quando nel luglio scorso per orchestrare la stretta di mano all’Eliseo tra il generale Haftar e il presidente rivale Al Sarraj.

La proiezione francese nel Golfo è strategica: Parigi è diventata il secondo esportatore mondiale di armi dopo gli Stati Uniti. La patria dei diritti umani, come ama definirsi, è guidata da presidenti diventati dei piazzisti di armamenti, non solo nel Golfo ma anche in India, in Asia e naturalmente in Africa, tradizionale riserva di caccia di FrancAfrique. Ma perché l’export di armi è così importante e quindi lo sono anche i Paesi del Golfo? Questo export ha consentito di ridurre in media il deficit di bilancio annuale dal 5 all’8 per cento, creando o preservando circa 30mila posti di lavoro. Ecco perché a Parigi si chiude un occhio, e magari anche due, sui diritti umani.

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