Trump cambia strategia militare

Afghanistan: così la «guerra infinita» non scongiura il ritorno dei Talebani

di Roberto Bongiorni

L’attentato a Kabul del 27 gennaio (Epa)

6' di lettura

Vi sono luoghi in Afghanistan lontani da tutto e da tutti. Dove il tempo si è fermato. Come a Siah Choy, nel distretto di Zahri, provincia meridionale di Khandahar. Nove anni dopo l'attentato contro le Torri Gemelle, al seguito del battaglione americano del 1°/75° Cavalry, inquadrato nella 101ª divisione, si cercava di mappare quelli che il capitano del plotone Ryan Kort definiva i “villaggi fantasma”. Dove nessun soldato americano aveva mai messo piede e qualche anziano li confondeva con i “demoni”, i soldati dell'Armata Rossa. Trovare qualcuno che sapesse cosa era accaduto l'11 settembre 2001 era davvero difficile. Nei cinque villaggi da noi perlustrati solo una persona conosceva la risposta, e in modo approssimativo. D'altronde nessuno poteva vantarsi di avere un televisore.

«Voi avete l'orologio, noi il tempo»
Questo era l'Afghanistan più remoto, la roccaforte dei Talebani, un'area liberata dall'élite delle truppe americane nell'autunno del 2010. Gli americani se ne sono andati alla fine del 2014. E i Talebani sono ritornati in diverse zone del Paese.
«Voi avete l'orologio, noi abbiamo il tempo» amano ricordare i Talebani. I fatti sembrano dar loro ragione. La guerra più lunga mai combattuta nella storia degli Stati Uniti – e la più costosa dopo l'Iraq - è destinata a trascinarsi ancora a lungo. I più pessimisti la chiamano la guerra infinita. I pragmatici la guerra che non si può vincere. Chi è stato deluso la considera la guerra inutile. E si domanda: a cosa è servito il sangue versato? A quali apprezzabili risultati hanno portato i 3.529 caduti della coalizione militare della Nato (di cui 2.393 americani e 54 italiani) e i 35mila militari afghani?
Il loro sacrificio ha certamente impedito ai Talebani di riconquistare tutto il Paese, instaurando le loro leggi oscurantiste. Come avevano fatto dal 1996 al 2001. Ma la guerra non è mai stata vinta. E da quando è stato completato il ritiro delle truppe internazionali, a fine del 2014, la situazione è peggiorata.

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Le ragazze di Arghosha, luce dell’Afghanistan

Il caos controllato e i piccoli “califfati” dei Talebani
La lunga scia di attentati che sta colpendo tutto il Paese, inclusa la capitale, è un segnale inquietante. Per ben due volte in sette giorni commando di Talebani hanno portato a termine due gravissimi attacchi a Kabul.
In Afghanistan regna ormai un “caos controllato”. Il governo del presidente Ashraf Ghani, sostenuto dalla Comunità internazionale, è ancora fragile e la sua autorità limitata. Mentre l'esercito afghano non è ancora così organizzato e addestrato per affrontare una guerra tanto insidiosa. Se non fosse assistito dalle truppe straniere, forse la perderebbe. E così si è creata una situazione di stallo. L'esercito afghano non è così forte da vincere la guerra. Ma grazie al sostegno degli Stati Uniti nemmeno così debole da perderla.

I Talebani stanno tuttavia rafforzandosi. Il governo di Kabul fatica a controllare metà del Paese. Secondo uno studio diffuso dall'emittente britannica Bbc, sono ormai presenti nel 70% del territorio. In molte più aree rispetto al 2014 e con delle differenze. Nella provincia meridionale di Helmand, dove sono caduti quasi 400 soldati britannici, gli studenti del Corano hanno riconquistato buona parte del territorio. Oggi sono dei piccoli califfati, dove i Talebani amministrano il territorio imponendo il loro sistema giuridico. La liberazione di queste aree si è dunque rivelata solo una breve parentesi durata qualche anno.

Il cambio di strategia di Trump: più soldati e raid aerei
Il presidente americano Donald Trump si trova ora in una posizione scomoda. In campagna elettorale si era disinteressato dell'Afghanistan, e quando ne aveva parlato, si era limitato a definire la missione «un disastro totale», auspicando il ritiro delle truppe rimaste.
Ma nessun presidente americano è riuscito a sottrarsi a questa crisi. Trump ha dunque deciso di cambiare strategia: più libertà ai bombardamenti aerei – con buona pace per le vittime civili uccise per errore - e più gruppi di forze speciali sotto copertura nelle regioni calde. Nel 2017 ha così aumentato il numero di militari nel Paese da 8.500 a 14 mila (in gran parte con compiti di addestramento). Ma pare che il Pentagono abbia chiesto un nuovo rinforzo di mille effettivi. Fino a quando? Per Trump fino alla “vittoria finale”. Un traguardo che sa di propaganda, a cui probabilmente nemmeno lui crede. A meno che questa vittoria non significhi un onorevole ritiro.

D'altronde nel 2010 il “surge” deciso da Barack Obama aveva portato le truppe americane, in gran parte da combattimento, sopra le centomila unità. Gli altri Paesi che partecipavano alla missione Nato (Isaf) avevano contribuito con oltre 40mila militari. Non si era vinta la guerra allora, non si comprende come possa essere vinta oggi con 15mila soldati, peraltro quasi tutti con compiti di addestramento.
Bombardare dall'alto serve poco in Afghanistan, soprattutto nelle impervie regioni montagnose. È dunque probabile che Trump chiederà ai Paesi alleati, che già schierano oltre 5 mila militari, un maggior contributo. Ed è probabile che incontrerà resistenza. Per l'Italia, che vanta il secondo contingente per numero nella missione Resolute Support (seguita all'Isaf), significherebbe portare l'attuale contingente da 900 ad almeno 1.200 effettivi. Senza sapere per quanto tempo. Uno scenario che stride con le parole espresse in proposito dal ministro della Difesa Roberta Pinotti il 15 gennaio: «Pensiamo di diminuire l'impegno, chiedendo agli alleati di contribuire a compiti oggi affidati a noi. Vogliamo andare in riduzione».

I costi delle guerra

Il presidente che voleva “investire” solo laddove erano presenti interessi americani ora si trova impelagato in una guerra sporca, che risucchia ingenti risorse al bilancio. Le cifre sono discordanti. Ma secondo i rapporti più autorevoli dal 2001 gli Stati Uniti hanno speso 783 miliardi di dollari per la campagna militare in Afghsnistan. Il dispiegamento di un solo soldato per un anno incide per circa un milione di dollari sul bilancio. Ma tra costi diretti e indiretti, Neta Crawford, co-direttore del Cost of Wars Project alla Brown University, ha stimato che il conflitto, inclusi alcuni impegni vincolanti per il futuro, è costato finora 2mila miliardi di dollari. Certo è avvenuta una graduale e continua riduzione. Nel 2010 la spesa per la campagna afghana aveva toccato 112,7 miliardi di dollari. Nel 2016 erano scesi a 30,8 miliardi. Ma sarà difficile ridurre sensibilmente questo livello. Tenendo conto che comunque il capitolo Afghanistan sarà una zavorra sul bilancio ancora per parecchio tempo.

I difficili negoziati
È forse necessario venire a patti con il nemico? Con chi semina stragi di civili? Dopo gli ultimi, brutali attentati Trump ha respinto l'idea: «Non vogliamo parlare con i Talebani. Un giorno potrebbe arrivare il momento per farlo. Ma dovrà passare molto tempo».

Eppure fino a poche settimane fa il team del presidente avevano riferito che le trattative erano vicine. È difficile da digerire, ma probabilmente non c'è altra soluzione. Il Governo afghano ci sta provando da tempo. Obtorto collo anche gli Stati Uniti sanno che la pace passa proprio, e forse soltanto, da questa strada. Anche se i precedenti non sono incoraggianti. L'ultimo serio round di “tentati negoziati” risale al 2015 in Pakistan. Ma fallirono ancora prima di iniziare.
I contatti tra Kabul e gli insorti sono continuati nel tempo ma hanno sempre incontrato un ostacolo insormontabile. I Talebani non hanno mai rinunciato alla loro pre-condizione: prima tutte le truppe straniere lasciano il paese, poi ci si siede al tavolo per intavolare trattative.
Vi è anche un altro fattore che non gioca a favore di un accordo duraturo e comprensivo: il governo di Kabul è profondamente diviso. Le crescenti tensioni tra diversi gruppi etnici e partiti politici rende difficile la formazione di un blocco omogeneo. Sull'altro fronte, i gruppi di insorti che agiscono sotto l'ombrello dei Talebani sono anch'essi divisi, spesso lontani tra loro geograficamente. La capacità del loro leader, Mullah Haibitullah, di controllare il feroce network degli Haqqani, un alleato con radici in Pakistan, determinato a proseguire la guerra a suon di attentati, appare compromessa.
Sempre più interessata a rafforzare la sua sfera di influenza in Afghanistan, la Russia ha ribadito la scorsa settimana la necessità di un dialogo diretto e urgente tra Talebani e Governo afghano, offrendosi di ospitare le delegazioni dei due belligeranti. Al contrario degli americani, Mosca ha mantenuto contatti con i movimenti degli insorti.

Talebani contro Isis, la guerra nella guerra
Ma l'ascesa in campo di un altra temibile formazione, l'Isis, rende lo scenario più complesso. In alcune regioni le rivalità con i Talebani sono degenerate in scontri armati. Negli ultimi giorni migliaia di civili sono fuggiti dalla regione settentrionale di Jawzjan a causa dei combattimenti.
È una matassa che appare inestricabile. Ma è difficile contestare una considerazione: la campagna afghana non è una guerra che può essere vinta dal cielo. E nemmeno ricorrendo alla sola forza militare. Una via negoziale sarà prima o poi necessaria Lo ha ricordato di recente Nadir Naeem, il vice direttore dell'ente afghano preposto alle trattative, l'High Peace Council. «La pace non può essere raggiunta intensificando la guerra».

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