Afghanistan

Il presidente afghano apre ai talebani: pace impossibile senza di loro

di Roberto Bongiorni

Il presidente afghano Ashraf Ghani (al centro) durante la cerimonia di apertura della conferenza di pace a Kabul

4' di lettura

«La pace non può essere raggiunta senza i talebani». Il punto di partenza espresso dal presidente afghano Ashraf Ghani per includere i talebani in un nuovo processo di riconciliazione, volto a mettere fine alle ostilità, non rappresenta una clamorosa svolta, piuttosto l’accettazione di una realtà sotto gli occhi di tutti.

Sedici anni di guerriglia contro i movimenti dei ribelli afghani non hanno prodotto risultati apprezzabili, tutt’altro. Da quando la missione Nato ha terminato il ritiro delle truppe da combattimento, a fine 2014, la situazione in Afghanistan è decisamente peggiorata. I talebani sono riusciti a riappropriarsi di molte aree, soprattutto rurali, dell’Afghanistan. In territori estesi a cavallo tra la provincia di Helmand e quella di Kandahar gli studenti del Corano hanno perfino creato dei loro piccoli Emirati, dei pseudo statarelli con tanto di amministrazione, istituzioni locali, leggi - per quanto oscurantiste - e difesa. E oggi controllano un territorio che, a seconda delle fonti, varia da un terzo a quasi metà del Paese.

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Il caotico stallo di una guerra senza vincitori.
L’esercito afghano, assistito da 15mila soldati americani con funzioni di addestramento, non è certo così debole da perdere la guerra. Mentre i talebani non sono così forti da poterla vincere. In sintesi la situazione di “caotico stallo” che si sta trascinando da anni rischia di trasformarsi in una cronaca instabilità.

Una situazione a tutto vantaggio dei nuovi movimenti estremisti presenti nel Paese, a cominciare dai jihadisti dell’Isis sempre più forti e organizzati col passare dei mesi.

Il piano di pace del presidente afghano
Non è la prima volta, e forse non sarà l’ultima, che il Governo afghano propone colloqui di pace. Ma questa volta Ashraf Ghani, il presidente sostenuto dalla comunità internazionale eletto nel settembre del 2014, ha messo sul tavolo un piano più serio e onnicomprensivo. La proposta è arrivata oggi, in apertura della seconda riunione del cosiddetto “Processo di Kabul”, davanti ai delegati di 25 Paesi e organizzazioni internazionali.

Afghanistan:presidente Ghani propone tregua a talebani

I punti più significativi sono un coinvolgimento dei talebani nei negoziati senza pre-condizioni. Se lo accetteranno, e soprattutto se saranno disposti a deporre le armi, il presidente afghano intende riconoscerli come un legittimo movimento politico. In secondo luogo Ghani si è reso disponibile a modificare la Costituzione (cosa che gli insorti chiedono da tempo), un passo significativo per cercare di creare fiducia tra i due belligeranti. Ghani si è inoltre impegnato a rilasciare i molti combattenti detenuti nelle carceri governative, a rimuovere le sanzioni internazionali contro il movimento e fornire loro perfino passaporti e visti.
Prima di raggiungere questi traguardi il presidente afghano è disposto a negoziare un cessate il fuoco.

Una pace difficile. Le pre-condizioni dei talebani
Fino a questa mattina non vi è stata una risposta da parte dei Talebani. Ma la strada verso la riconciliazione non appare, per ora, in discesa. Se i talebani hanno recentemente contattato gli Stati Uniti per provare ad aprire negoziati (rifiutandosi di farlo direttamente con il Governo afghano) i precedenti non sono incoraggianti. L’ultimo serio round di “tentati negoziati” tra Kabul e gli insorti risale al 2015 in Pakistan. Ma fallirono ancora prima di iniziare. I contatti sono continuati nel tempo ma hanno sempre incontrato un ostacolo insormontabile. I talebani non hanno mai rinunciato alla loro pre-condizione: per prima cosa tutte le truppe straniere lasciano il Paese, poi ci si siede al tavolo per intavolare trattative.

Senza contare che le divisioni, in alcuni casi profonde, tra i gruppi di insorti che agiscono sotto l’ombrello dei talebani rappresentano un altro ostacolo. Chi può assicurare che il leader dei talebani, mullah Haibitullah, sia davvero capace di controllare il feroce network degli Haqqani, un alleato con radici in Pakistan, determinato a proseguire la guerra a suon di attentati?
Il Pakistan, appunto. Nel suo discorso Ghani si è rivolto al Governo di Islamabad invitandolo ad aprire un dialogo bilaterale. «Siamo pronti a discutere con Islamabad, dimenticando il passato e cominciando un nuovo capitolo» nelle nostre relazioni.

Non è un segreto che frange dei temibili servizi segreti pakistani sono sempre state accusate di coltivare relazioni ambigue con alcuni gruppi di talebani. A volte sono stati sospettati di dirigerli. Cosa che ha irritato profondamente il presidente americano Donald Trump. Esasperato da quello che appare un doppio gioco pakistano, il primo gennaio Trump ha annunciato di voler sospendere i corposi fondi americani destinati alla Difesa del Pakistan.

E gli Stati Uniti?
Nonostante le voci di recenti contatti tra Stati Uniti e gruppi di insorti afghani, la linea del presidente americano è stata chiara. Dopo la scia di brutali attentati che hanno sconvolto lo scorso mese la capitale Kabul, Trump sembra aver perso la pazienza:«Non vogliamo parlare con i talebani. Un giorno potrebbe arrivare il momento per farlo. Ma dovrà passare molto tempo».
Trump ha ribadito di puntare a «una vittoria finale» in Afghanistan. Obiettivo decisamente difficile, considerando che i 15mila addestratori americani presenti nel Paese sono un numero insignificante rispetto ai quasi 150mila soldati da combattimento della missione Nato (Isaf) dispiegati nel 2009-2010. Eppure anche allora la guerra non fu vinta. Tanto meno si può pensare di sbarazzarsi dei talebani con bombardamenti dal cielo, missioni anti-terrorismo da parte di piccoli nuclei di forze speciali, e 15mila addestratori.

La coerenza non sembra il punto di forza di Donald Trump, che sovente alle sue clamorose iniziative ha fatto seguire repentine marce indietro. Forse si renderà conto che se si vuole stabilizzare l'Afghanistan è necessario venire a patti con il nemico. Anche con chi semina stragi di civili.

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