TENSIONI COMMERCIALI

Perché la guerra dei dazi di Trump danneggia anche gli Stati Uniti

di Morya Longo

(Ap)

4' di lettura

A Wall Street la guerra commerciale avviata da Donald Trump ha assunto subito i contorni di un boomerang. Per difendere i settori dell’acciaio e dell’alluminio (che negli Stati Uniti producono meno dello 0,5% del Pil) e per tirare un calcio alla Cina (che però nel settore dell’acciaio è solo il decimo esportatore negli Usa), il presidente degli Stati Uniti ha in realtà tirato uno schiaffo a molti settori industriali statunitensi. Ai loro lavoratori. E forse alla sua stessa base elettorale. Per difendere insomma un settore residuale nell’economia americana, che impiega appena 86mila lavoratori pari allo 0,7% dell’occupazione manifatturiera, Trump ha colpito potenzialmente molti altri comparti industriali. Che hanno molti più lavoratori. Non solo negli Usa.

Non è un caso che sulla Borsa di Wall Street la turbolenza negli ultimi due giorni sia stata elevata: dopo aver perso l’1,33% giovedì, ieri è scesa fino a -1,13% per poi risalire un po’ in serata. Non è un caso che a ruota siano scivolate verso il basso tutte le altre Borse, che maggiormente subiscono le misure di Trump: da quella di Francoforte (-2,27% ieri) a quella di Milano (-2,39%). E non è un caso neppure che a perdere siano stati i settori più penalizzati dalla guerra commerciale di Trump, a partire da quello automobilistico che in due giorni ha bruciato il oltre il 3% a Wall Street e il 4,03% in Europa. La risposta delle Borse a Donald Trump è insomma inequivocabile: il protezionismo è nemico degli affari.

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I settori penalizzati
Sebbene ancora non si conoscano i contorni delle misure in testa a Trump (non si sa se gli aumenti tariffari saranno circoscritti ad alcuni Paesi esportatori oppure a tutti e se saranno temporanei o definitivi), è da due giorni che in Borsa circolano stime e calcoli sui possibili impatti. Le previsioni sono tutte approssimative e preliminari, ma sono quelle che negli ultimi due giorni hanno maggiormente pesato sui mercati finanziari.

Industria dell’auto penalizzata
Tra le aziende più penalizzate ci sono innanzitutto quelle che producono beni utilizzando acciaio oppure alluminio. Per esempio le case automobilistiche: l’aumento delle tariffe sulle materie prime va infatti ad aumentare i loro costi di produzione. A soffrire, in questo comparto, anche le aziende italiane che producono Oltreoceano. Secondo alcune stime spannometriche e preliminari che circolavano ieri a Piazza Affari, una società come Fiat Chrysler, che negli Usa ha circa il 60% della produzione, potrebbe subire una contrazione degli utili superiore al 3,5% solo per effetto di queste misure protezionistiche. Cnh Industrial, che invece in Usa concentra il 24% della produzione, potrebbe subire una contrazione dei profitti nell’ordine del 4,5%. Non è un caso che Fca e Cnh negli ultimi due giorni abbiano perso rispettivamente l’8,32% e il 5,92% in Borsa.

Ad essere penalizzate anche le aziende che operano nel settore minerali e metalli: le tariffe di Trump pesano infatti sulle loro esportazioni in America. Non è un caso che questo settore in Europa sia stato il più venduto, con un calo in due giorni del 5,33%. Inferiore il calo di questo comparto a Wall Street, perché queste sono le società che Trump vorrebbe proteggere. Ma dato che tanti Stati hanno annunciato contromisure (dal Canada all’Unione europea), questo settore ha comunque perso in due giorni circa l’1% anche nella Borsa di New York. Tanti altri comparti sono inoltre stati penalizzati, come quello tecnologico (-4,15% in due giorni in Europa).

Il timore di inflazione
A pesare sui mercati anche un secondo effetto delle misure protezionistiche di Trump: il loro possibile effetto inflattivo. Molte case d’investimento, da Bank of America a JP Morgan e Global Economics, mettono in guardia su questo punto. Anche il National Bureau of Economic Research scrive che misure di questo tipo «contraggono la produzione, aumentano i prezzi e hanno effetti contrastanti sulla bilancia commerciale». Ma ai mercati interessa più un altro aspetto, su cui pone l’accento una nota di JP Morgan: se queste misure aumentassero l’inflazione (perché le imprese potrebbero scaricare sui consumatori il maggior costo delle materie prime), la Federal Reserve potrebbe essere costretta ad alzare i tassi d’interesse più velocemente del previsto. «La Fed - scrive JP Morgan - dovrà tenere d’occhio gli effetti sui prezzi, per capire se saranno in grado di aumentare le aspettative inflattive nel lungo termine». E dato che l’atteggiamento delle banche centrali è determinante sui mercati, questo aspetto potrebbe pesare a lungo.

L’impatto a Piazza Affari
Anche sulla Borsa di Milano l’effetto si è visto ben chiaro. A soffrire sono state, oltre a Fca e Cnh, anche altre aziende del settore componentistica auto o di altro tipo. Per esempio Brembo che, secondo alcune stime spannometriche, potrebbe subire una contrazione degli utili fin quasi al 6% per effetto delle misure di Trump. Oppure Interpump, che concentra negli Stati Uniti il 25% della produzione, potrebbe avere un impatto sugli utili superiore all’1%. Ma queste sono solo stime, su misure di cui ancora si conosce poco. La Borsa reagisce sempre d’istinto. Poi, col tempo, pesa meglio gli eventi. Forse il tentativo di recupero serale di ieri a Wall Street è il segno che, dopo la reazione d’impulso, le Borse dovranno capire esattamente cosa il presidente statunitense intende fare. E, poi, come risponderanno gli altri Stati che già hanno annunciato rappresaglie doganali.

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