Asia e Oceania

La Cina apre i mercati finanziari

di Rita Fatiguso

(REUTERS)

3' di lettura

Sorridendo, il vice ministro delle Finanze Zhu Guangyao snocciolava percentuali e tempistica di una decisione che, per un attimo, ai cronisti presenti è sembrata irreale: la Cina, da ieri, ha effettivamente (e finalmente) aperto le porte dei suoi mercati finanziari.

Le società straniere potranno arrivare al 51% nel capitale di banche, società di venture capital e di gestione finanziaria, nelle assicurazioni e il tetto sparirà del tutto per le banche nei prossimi tre anni, per le assicurazioni nei prossimi cinque. È quanto chiedono da sempre le imprese straniere attive in Cina, accesso al mercato e parità di trattamento, anche nei servizi finanziari finora rimasti saldamente in mano alle società locali.

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I cinesi hanno comunicato questa decisione epocale un attimo dopo la partenza del presidente americano Donald Trump per l’Apec, in Vietnam. Della decisione non c’è traccia alcuna nel comunicato stampa finale della Casa Bianca. C’è da chiedersi la ragione di tutto ciò. Come mai?

«Abbiamo deciso così – ha detto Zhu – perché la promessa dell’apertura dei mercati finanziari è scritta a chiare lettere nel Report del Presidente Xi Jinping al 19esimo Congresso del Partito».

In altri termini, nonostante le richieste assillanti rinnovate ripetutamente da Governi e istituzioni, americane ed europee, Pechino ha deciso di farlo «per conto suo» e nel momento che ha considerato «giusto».

La Cina in realtà deve riattivare assolutamente gli investimenti esteri che languono, la discesa degli Fdi (Foreign direct investment) sembra senza fine, non è possibile concentrare gli sforzi solo nella stretta agli investimenti cinesi all’estero e nella lotta ai flussi di capitale che hanno comportato oneri enormi in termini di riduzione delle riserve in valuta.

Che poi la mossa annunciata ieri faccia bene anche allo squilibrio commerciale Usa-Cina aumentando la quota relativa ai servizi è un fatto importante. Ma la Cina – questo il senso - deve pensare soprattutto a cosa fa bene alla Cina.

Quindi, pur sottolineando l’ammontare dei 250 miliardi di accordi siglati durante la visita del presidente Usa, Zhu ha sottolineato che la mossa sui mercati finanziari è un fatto strutturale; se le società straniere potranno possedere oltre il 51% di società cinesi, ovviamente anche la Cina se ne avvantaggerà in termini di maggior competitività dei suoi mercati finanziari.

L’apertura del mercato dei corporate bond e dell’azionario non bastano, da sole, ad assicurare un’adeguata apertura ai capitali esteri, com’è noto JP Morgan ha abbandonato il business cinese del venture capital proprio a causa delle restrizioni locali e le banche straniere hanno sempre accusato la Cina di marginalizzarle in una piazza molto promettente proprio con lo strumento delle quote nel capitale sociale. Di fatto, questo, è il risultato più importante del passaggio di Trump in Cina. Un passo fondamentale per consentire agli investimenti di prosperare all’interno di un’economia strettamente controllata dal potere centrale.

Se tutto andrà per il verso giusto e se i vari poteri cinesi permetteranno l’attuazione della riforma, le società straniere potranno, in effetti, godere di un accesso mai visto, dal momento che le autorità rimuoveranno del tutto i limiti alla partecipazione del capitale. Per la Cina non sarà semplice cambiare registro così facilmente e i costi da pagare saranno alti, ma la politica ha deciso. «Non c’è una ragione sola per non fare tutto ciò», ha concluso, infatti, Zhu Guangyao.

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