guerra a damasco

Siria, il raid non sfiora Assad. Due fronti caldi con l’Iran protagonista

di Roberto Bongiorni

Manifestazioni filogovernative a Damasco

5' di lettura

La Siria colpita dal raid militare venerdì notte non è la Siria che interessa ai Paesi occidentali. Nel centro e sulla costa mediterranea di questo Paese martoriato da sette anni di guerra è saldamente al potere il presidente Bashar al-Assad. Nessun Paese europeo, e nemmeno gli Stati Uniti, vogliono rimuoverlo. Né sembrano in grado di farlo. Una volta oltrepassata la linea rossa – ovvero l’uso di armi chimiche contro i civili - la decisione di colpire i siti di produzione e di stoccaggio delle armi chimiche è stata solo una rappresaglia “dovuta”. Un’azione alla fine più dimostrativa che realmente efficace.

I nuovi fronti caldi della Siria
I fronti caldi sono altri: i territori meridionali vicino alle alture del Golan, prossimi al confine israeliano (dove si trovano anche le milizie iraniane). La Siria è infatti il terreno di un potenziale pericoloso scontro fra Israele e Iran. Una fonte militare israeliana ha confermato al New York Times che sono stati gli israeliani ad attaccare la base T4 di Tayfur da cui era partito un drone armato contro lo Stato ebraico. «È stata la prima volta che abbiamo attaccato obiettivi iraniani intesi come edifici e persone» ha spiegato la fonte al giornalista Thomas Friedman. Perché quel drone iraniano ha cambiato le cose: «Questa è la prima volta che abbiamo visto l'Iran, e non chi agisce per conto suo, fare qualcosa contro Israele. E ciò ha aperto un nuovo periodo».

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E soprattutto le aree nordorientali controllate da curdi siriani. In questa estesa striscia di terra, che si affaccia sul confine turco, i curdi hanno insediato da cinque anni un’autonomia amministrativa che somiglia a uno pseudo-Stato (quasi un quarto del territorio siriano).

Proprio nelle aree settentrionali si sta giocando una partita geopolitica in cui sono coinvolti russi, iraniani, curdi, arabi siriani e turchi. Questa è la nuova polveriera della Siria, il primo grande fronte dell’era del dopo Isis.

Gli obiettivi diversi dei leader mondiali
È un fronte estremamente confuso, come confusi sembrano i piani dei diversi capi di Stato, anche di quelli che hanno agito congiuntamente tra venerdì e sabato notte nel raid contro i siti chimici del regime siriano.

Il presidente francese Emmanuel Macron, il leader europeo più attivo e più “vicino” a Donald Trump, vorrebbe che gli Stati Uniti mantenessero la loro presenza militare (2mila soldati quasi tutti a Manbij). Quasi per persuadere Trump a non ripensarci, ha perfino reso nota la disponibilità di inviare militari francesi. Una potenziale missione che poggia su due obiettivi: impedire all’Isis di riorganizzarsi (la Francia è stata di gran lunga il Paese più colpito dagli attentati terroristici dei jihadisti) e proteggere le milizie curde. Già profondamente irritato per la presenza americana – più volte ha intimato a Trump di ritirare i soldati – il presidente turco Recep Tayyp Erdogan ha reagito con parole rabbiose alla proposta francese. Ai suoi occhi la presenza militare dei Paesi “alleati” all’interno della Nato è un ostacolo all’espansione della sua offensiva contro le regioni settentrionali della Siria controllate dalle milizie curde (le Ypg). Nonostante le recenti smentite, Macron ha precisato di aver convinto gli americani a rimanere.

E Trump? A parole, o meglio a suon di tweet, lui non sembra aver dubbi. La sua priorità è sempre stata la guerra contro l’Isis. Due settimane fa ha rotto gli indugi annunciando un imminente ritiro delle forze americane dalla Siria non appena tale missione sarà portata a termine. A sua detta «presto, molto presto». Posizione ribadita ieri dalla Casa Bianca.

La guerra di Afrin e le potenziali nuove guerre del Nord
Ma cosa è accaduto in quest’area? Con l’Isis polverizzato e quasi neutralizzato (ha ceduto il 94% dei territori che controllava a cavallo di Siria e Iraq), i Paesi che, almeno a parole, erano tutti uniti nella guerra contro i jihadisti di Abu Bakr al-Baghdadi ora hanno interessi e obiettivi divergenti, in alcuni casi diametralmente opposti, su questa fetta strategica della Siria di domani.

Ad aprire le ostilità è stato il presidente Recep Tayyip Erdogan. Il 20 gennaio scattava l’operazione militare Ramoscello di Ulivo (un nome quasi provocatorio considerando i bombardamenti dell’aviazione turca). Obiettivo: scacciare via le milizie curdo siriane (Ypg) da questa Enclave della Siria nord occidentale e creare provvisoriamente una zona di sicurezza per proteggere il confine turco. Agli occhi del governo di Ankara, infatti, le Ypg sono un’organizzazione terroristica al pari del Pkk, il movimento secessionista curdo che agisce soprattutto in Turchia. Sono la stessa cosa, ha ripetuto più volte Erdogan. I Paesi occidentali, tuttavia, la pensano diversamente. Se il Pkk rientra anche nella loro lista delle organizzazioni terroristiche, le Ypg si sono finora dimostrate le milizie più affidabili. Inquadrate nella coalizione multi-etnica delle Syrian Democratic Forces, di cui costituiscono almeno l’80% degli effettivi, ricevono da tempo l’addestramento e le armi da parte degli Stati Uniti, e non solo.
Su un fatto i Governi europei e la Casa Bianca sono unanimemente d’accordo: se l’Isis è stato quasi sconfitto lo si deve soprattutto a loro, gli scarponi sul terreno della coalizione internazionale contro l’Isis.

Dopo due mesi di violenti combattimenti e bombardamenti aerei, l’esercito turco ha conquistato Afrin. E ora? Euforico per il successo, Erdogan intende estendere l’offensiva anche altre regioni controllate dai curdi fino al confine con l’Iraq. A cominciare da Manbij.
C’è tuttavia un problema. Proprio a Manbij si trovano circa 2mila militari americani presenti sul luogo per addestrare le Sfd. Conscio del loro ruolo di stabilizzazione, il Pentagono aveva fatto sapere di non essere intenzionato a rimuoverli, almeno nel breve termine. Trump, ancora una volta, non sembra però intenzionato a seguire i consigli dei suoi generali.

Il ritiro? Un regalo all’Iran. Che spaventa Israele
Per quanto esperti combattenti, i miliziani curdi non hanno i mezzi né i numeri per fronteggiare una nuova grande offensiva turca, tanto meno per arginare allo stesso tempo l’espansione dell’Iran.
Chi potrebbe realmente beneficiare del ritiro dei soldati americani sarebbe proprio la Repubblica islamica. Controllare i territori settentrionali della Siria consentirebbe a Teheran di avere in mano un corridoio strategico che attraverso l’Iraq (Paese a maggioranza sciita) , passando per la Siria, arriverebbe in Libano, dove i suoi alleati Hezbollah (il movimento sciita libanese) esercitano un controllo pressoché capillare. L’Iran, insomma, arriverebbe ad avere un accesso logistico sul Mediterraneo.

Israele contro Hezbollah. La prossima guerra?
Uno scenario che Israele vede come il fumo negli occhi. Da diversi anni i caccia israeliani compiono ripetutamente raid in Siria. Anche Israele ha tracciato le sue linee rosse: nessuna fornitura di armi sofisticate agli Hezbollah, e nessuna base iraniana vicino ai suoi confini. Per impedirlo la sua aviazione avrebbe effettuato oltre 100 raid negli ultimi 5 anni, distruggendo convogli di armi diretti agli Hezbollah, basi aeree dove sono attivi i comandanti iraniani, e siti ritenuti pericolosi per la sicurezza di Israele. Raid, tuttavia, sempre brevi e contenuti. Per evitare pericolose escalation.
Se gli americani ritirassero davvero i loro soldati, rendendo di fatto più solida la già consistente presenza iraniana in Siria, è prevedibile che il Governo israeliano intensifichi i suoi raid. Anche contro le milizie pro-iraniane presenti a poche decine di chilometri dal confine israeliano. E in questo scenario non è affatto escluso che gli Hezbollah possano decidere di agire.
Sarebbe un’altra pericolosa escalation in una guerra dove i fronti caldi sono già troppi.

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