PROPRIETÀ INTELLETTUALE

Hi-tech, se Berlino segue Trump e alza un muro contro la Cina

di Gianluca Di Donfrancesco

I robot di Kuka, l’azienda tedesca rilevata dalla cinese Midea nel 2016

3' di lettura

Seguire le orme degli Stati Uniti e alzare uno scudo per difendere i gioielli dell’industria tedesca dalla bulimia di Pechino. È più di una semplice ipotesi quella allo studio del Governo di Berlino. La Germania deve ancora riprendersi dallo shock dell’ingresso pesante di Geely nel capitale di Daimler a febbraio e dall’acquisizione dei Kuka (robotica) da parte di Midea nel 2016.

A spingere in questa direzione c’è poi un’altra considerazione, non secondaria. Traslata a livello europeo, la decisione di assecondare il presidente Usa Donald Trump nella sua crociata contro gli «scippi» di segreti industriali e tecnologie avanzate perpetrati da Pechino potrebbe essere una moneta di scambio nel confronto commerciale con Washington.

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L’idea circola tra le cancellerie europee da quando Trump ha varato i dazi su acciaio e alluminio e finora sembrava convincere soprattutto la Francia, che preferirebbe questa opzione alla trattativa generalizzata sui dazi, suggerita dall’amministrazione Trump. Giovedì è stata ripresa dal neo-ministro dell’Economia tedesco, Peter Altmaier. Il Governo ha già individuato lo strumento da utilizzare per rendere più difficili le acquisizioni di aziende tedesche da parte di gruppi esteri. Vale a dire abbassare la soglia di capitale rilevato, oltre la quale scatta il controllo delle autorità tedesche.

Attualmente, questo tetto è fissato al 25%. L’anno scorso il Governo aveva ampliato i settori industriali nei quali si applica. Ora si pensa di abbassare la soglia al 20-15% e forse di più. Secondo il magazine Wirtschafstwoche, Altmaier sarebbe favorevole a scendere al 10%: questo significherebbe far scattare il potere di interdizione del Governo ogni volta che un investitore straniero punti al 10% del capitale di un’impresa tedesca. «Desidero che le aziende cinesi continuino a investire in Germania, ma ciò deve essere possibile anche nella direzione opposta. E poi, abbiamo il dovere di proteggere le nostre infrastrutture chiave», ha detto Altmaier.

Anche l’intelligence tedesca ha suonato il campanello d’allarme e ha chiesto maggiore attenzione sugli investimenti cinesi nelle società hi-tech, sottolineando che la perdita di tecnologie potrebbe danneggiare l’economia della Germania. Una eco chiarissima alle analoghe preoccupazioni sollevate mesi fa dalla Defense Innovation Unit Experimental del Pentagono.

Già l’anno scorso, su impulso di Germania, Francia e Italia, la Commissione europea ha presentato una proposta per la creazione di un meccanismo comune di vigilanza sugli investimenti in arrivo da economie extra-Ue. Non tutti gli Stati membri vivono però l’arrivo di capitali cinesi alla stessa maniera. Ad Atene, per esempio, più che come una minaccia, sono accolti come ossigeno per un’economia messa alla frusta dalla austerity della troika, in cambio dei piani di salvataggio. La Cina non fa paura nemmeno a Est, dove Pechino guida poi l’iniziativa «16+1», che riunisce 16 Paesi dell’Europa centrale e orientale (undici dei quali sono membri Ue).

Fermare la corsa tecnologica di Pechino è una priorità per l’amministrazione Trump nella guerra per la leadership dell’economia dell’innovazione. Tanto che il Governo Usa ha espressamente dichiarato l’intenzione di “sabotarne” il piano Made in China 2025, lanciato nel 2015 per diventare la superpotenza mondiale in dieci settori di frontiera, come information technology, robotica, aerospazio, auto elettrica, nuovi materiali o biofarmaceutica. A questo serve la salva di dazi del 25% annunciati ad aprile su oltre 1.300 prodotti cinesi, il bando contro il colosso delle Tlc Zte, l’indagine a carico su Huawei, il rafforzamento dell’agenzia Usa che vigila sugli investimenti esteri, fino ad arrivare all’ipotesi di dichiarare una emergenza nazionale pur di bloccare i gruppi cinesi.

All’indomani dell’acquisizione di quasi il 10% di Daimler da parte di Geely, che ne diventava così il primo azionista singolo, a Berlino si facevano ragionamenti non troppo dissimili: «Se Made in China 2025 avesse successo, l’industria tedesca potrebbe benissimo fare i bagagli e andarsene a casa», diceva con un po’ di enfasi il direttore del Global Public Policy Institute di Berlino, Thorsten Benner.

Con partecipazioni in oltre 50 società tedesche nel 2017, la Germania è il primo “territorio di caccia” di colossi cinesi che spesso hanno alle spalle la forza finanziaria di società statali. Gli investimenti cinesi in Germania sono letteralmente esplosi negli ultimi due anni, arrivando a sfiorare i 13 miliardi di dollari nel 2017 (in acquisizioni ed equity). Nel 2012 si fermavano sotto i 2 miliardi. Ogni azione verso Pechino va però ponderata con attenzione: la Cina è il primo partner commerciale della Germania e 6mila aziende tedesche sono presenti nel gigante asiatico, con investimenti diretti per 60 miliardi di euro.

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