Il leader sciita e l’influenza iraniana

Alle elezioni in Iraq il ritorno a sorpresa del nazionalista al-Sadr

di Roberto Bongiorni

(AFP)

3' di lettura

Moqtada al-Sadr è una vecchia conoscenza degli Stati Uniti. Fu proprio lui, un carismatico clerico sciita formatosi in Iran, a portare avanti due sanguinose insurrezioni nel 2003 contro i militari americani. Le sue agguerrite milizie, l’esercito del Mahdi, si erano macchiate anche di gravi atrocità contro la comunità sunnita nel periodo degli anni bui, quando l'Iraq era lacerato dalle divisioni confessionali. Oggi Moqtada, 43 anni, trasformatosi in un accanito nazionalista, nemico anche dell’Iran, è l'uomo che proverà a formare un Governo di coalizione in Iraq.

Le elezioni politiche di sabato scorso, le prime dalla fine della guerra contro l’Isis, hanno disatteso ogni previsione. In quello che appare un voto di protesta, caratterizzato da un'affluenza (44,5%) molto più bassa rispetto alle precedenti elezioni, la coalizione che appare saldamente in testa, con 54 seggi, è proprio quella guidata dal clero sciita dei Manifestanti (al-Sairoon). Guardato quasi con sufficienza da suoi rivali, al-Sadr è stato l'artefice di un insolito esperimento politico - qualcuno lo ha definito bizzarro e improbabile - che ha visto correre insieme le sue forze sciite con quel partito comunista che fino a pochi anni fa lui stesso definiva un «gruppo di miscredenti».

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Tale coalizione, trasversale e “laica”, si è distinta per un programma elettorale incentrato sulla guerra alla corruzione, sulla povertà e su di un acceso nazionalismo volto a contrastare l’interferenza straniera in Iraq, sia degli Stati Uniti sia dell’Iran.

Al secondo posto, con 47 seggi, si sta posizionando la coalizione Fatah, guidata da Hadi al-Amiri, composta dai politici più conservatori della Suprema coalizione dell’Iraq. Un gruppo che vede la partecipazione di esponenti delle milizie filo-iraniane. La terza grande sorpresa, in negativo, è arrivata da quello che era considerato il candidato più accreditato, l'attuale primo ministro sciita Aydar al-Abadi. La sua coalizione “Vittoria dell'Iraq” (Nasr Coalition), indirettamente sostenuta dall’Occidente, e data per favorita , è arrivata terza (43 seggi).

Uscito dal partito di maggioranza Dawla, al-Abadi aveva fondato questa lista nazionalista e confessionalmente trasversale, con l’intento di mantenere l'equilibrio diplomatico tra Stati Uniti e Iran. Quarta, infine, la coalizione dell'ex premier Nouri al-Maliki, sciita vicino a Teheran, che durante i suoi due mandati aveva dato ilvia a una politica discriminatoria nei confronti delle minoranze, in particolare i sunniti.

E ora che tipo di Governo uscirà dalle urne? Non è tuttavia scontato che andrà necessariamente al Governo il partito che abbia il maggior numero di seggi. Nelle elezioni del 2010 il vice presidente Ayad Allawi, uno sciita moderato che aveva il sostegno della comunità internazionale, aveva conquistato la maggioranza relativa, anche se con uno stretto margine. Eppure non era riuscito a formare un governo, lasciando il posto al controverso premier Nouri al-Maliki. Allawi aveva accusato l’Iran di aver agito per estrometterlo. Otto anni più tardi la stessa sorte potrebbe accadere ad al-Sadr.

Teheran nutre nei suoi confronti una profonda ostilità . Quando, nel 2016, il gruppo di al-Sadr aveva guidato una grande protesta popolare contro la corruzione, occupando anche il Parlamento, Ali Akbar Velayati, consigliere della suprema guida spirituale iraniana, l'ayatollah Ali Khameni, aveva assunto una posizione molto dura: «Non permetteremo ai liberali e ai comunisti di governare in Iraq».

Due altri scenari non sono da escludere: che Al-Amiri e al-Maliqi si coalizzino cercando di raccogliere altri consensi per formare un Esecutivo filo-iraniano. Oppure il Parlamento potrebbe ancora scegliere l'attuale premier al-Abadi per un secondo mandato. Ma sarebbe un “premier dimezzato”, più debole, che peraltro si troverebbe a gestire un problema colossale: mantenere un equilibrio nel confronto tra Usa e Iran dopo l’uscita degli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare iraniano. L'ingegnere cresciuto a Londra, aveva ricevuto il sostegno militare da parte di Washington nella guerra contro l’Isis, ma aveva consentito che Teheran armasse le milizie filo-iraniane che combattevano a fianco dell'esercito iracheno .

Che tipo di Iraq esce dunque dalle urne? Dire che ha vinto l’Iran non è del tutto corretto. Sostenere che ha perso l'Occidente è però difficile da contestare. Perché dopo quelle libanesi, le elezioni politiche in Iraq confermano che i partiti più vicini all'Occidente stanno attraversando un periodo di grandi difficoltà.

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