Tensione Washington-Teheran

Usa contro Iran: la guerra di parole (per ora) sulle rotte di petrolio e Medio Oriente

di Roberto Bongiorni

Trump contro l'Iran: basta minacce o soffrirete come pochi

5' di lettura

Per ora è solo una guerra di parole. Ma i toni apertamente belligeranti tra Iran e Stati Uniti preludono comunque ad un autunno caldissimo. Ricorrendo ancora una volta ad un tweet, il presidente americano Donald Trump ha perfino evocato la possibilità di una guerra aperta con la Repubblica islamica. «Non minacciate mai più gli Stati Uniti – ha scritto Trump rivolgendosi al presidente iraniano Hassan Rouhani – o subirete conseguenze come pochi nella storia ne hanno sofferte. Non siamo più un Paese che sopporterà le vostre stupide parole di violenza e morte. Fate attenzione». Un tweet scritto in maiuscolo per enfatizzare e rimarcare le parole del presidente a capo di una delle due maggiori potenze nucleari del mondo.

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Una guerra finora solo di parole
Minacce di questo tenore - fortunatamente non seguite dai fatti - Trump le aveva già fatte la scorsa estate contro il regime nordcoreano: «Basta o sarà fuoco e furia come il mondo non ha mai visto». Il destinatario del bellicoso tweet di ieri è il presidente Rouhani, che il giorno prima aveva ammonito Trump: «Non giochi con la coda del leone (scherzare col fuoco), altrimenti se ne pentirà. L’America dovrebbe sapere che la pace con l’Iran è la madre di tutte le paci mentre la guerra con l’Iran è la madre di tutte le guerre». In questa escalation verbale ieri sera il capo iraniano della giustizia, Sadegh Amoli Larijani, ha definito Trump «stupido e incapace». Da parte sua ieri pomeriggio John Bolton, il consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca, ha alzato i toni dello scontro. «Il presidente Trump mi ha detto che se l’Iran farà qualcosa di negativo pagherà un prezzo che solo pochi Paesi hanno pagato finora».

Lo stretto di Hormuz, il crocevia mondiale del petrolio via mare
Anche domenica il presidente Rohuani non ha mancato di fare un allusione, fin troppo esplicita, ad una potenziale crisi nello stretto di Hormuz, il braccio di mare che collega le acque del Golfo Persico a quelle dell’Oceano indiano da cui transita il 30% di tutto il petrolio trasportato via mare nel mondo (e circa un terzo del greggio consumato in Europa): «Signor Trump noi siamo uomini d’onore e coloro che hanno garantito la sicurezza dello stretto regionale nella storia. Se noi non potremo esportare il nostro petrolio nessun altro Paese della regione potrà farlo». Hormuz, la cui costa orientale è territorio iraniano, è un punto nevralgico delle rotte petrolifere mondiali. Ogni giorno 17,5 milioni di barili di greggio (mbg) estratti dai Paesi del Golfo (soprattutto Arabia Saudita, Emirati Arabi, ma anche Kuwait, Iraq e Qatar) transitano attraverso questo canale, nel suo punto più stretto largo meno di 50 chilometri. In caso di chiusura di Hormuz, Arabia Saudita ed Emirati, due dei più solidi alleati arabi degli Stati Uniti, potrebbero utilizzare rotte alternative dirottando il greggio attraverso una rete di oleodotti. Ma la capacità degli oleodotti (inclusi anche quelli iracheni verso la Turchia) sarebbe poco più di un terzo del volume complessivo che transita oggi per lo stretto di Hormuz.

Il fine ultimo della Casa Bianca: un cambio di regime in Iran
Da mesi il presidente americano sta cercando di convincere gli alleati europei a mettere nell’angolo l’Iran. Sono trascorsi solo due mesi da quando Trump ha annunciato l’uscita unilaterale degli Stati uniti dall’accordo sul nucleare iraniano, incrinando ulteriormente le relazioni con gli alleati europei, firmatari dell’intesa insieme a Russia e Cina. Da allora i rapporti tra Teheran e Whasington sono andati peggiorando. I paesi europei, che stanno ancora cercando, finora invano, di preservare l’accordo sul nucleare, hanno chiesto alla Casa Bianca di concedere permessi speciali per le loro compagnie che svolgono importanti business in Iran al fine di non incorrere nelle sanzioni americane. Ma, al di là di qualche possibile moratoria verso paesi asiatici che dipendono dall’import di greggio iraniano, Washington sembra decisa ad applicare le sanzioni a qualunque paese farà affari “proibiti” con l’Iran. Tra pochi giorni, il 4 agosto, entrerà in vigore la prima tranche di sanzioni contro l’Iran. La seconda tranche partirà in novembre, quando dovrebbe scattare l’embargo petrolifero, la sanzione che potrebbe mettere in ginocchio l’economia iraniana.
Il piano di Trump è chiaro: delegittimare il governo iraniano, un regime che ai suoi occhi sostiene il terrorismo islamico internazionale e destabilizza la regione. L’obiettivo finale a cui lavora da tempo Washington è portare dalla propria parte la popolazione iraniana e provocare un cambio di regime. Un compito non facile in cui è impegnato lo staff del presidente, in prima linea il segretario di Stato, Mike Pompeo. Poche ore prima del tweet di Trump Pompeo ha affermato che la guida suprema dell’Iran, Ali Khamenei, avrebbe un fondo speculativo segreto personale da 95 miliardi di dollari non tassato e utilizzato dalle Guardie islamiche rivoluzionarie: «Il livello di corruzione e ricchezza tra i leader del regime dimostra che l’Iran è gestito da qualcosa che somiglia alla mafia più che a un governo», ha precisato Pompeo.

L’impatto di un nuovo embargo petrolifero contro l’Iran
L’obiettivo dell’embargo petrolifero è chiaro: mettere in ginocchio l’economia iraniana colpendo il suo settore più redditizio, quello energetico. Mentre erano in vigore le sanzioni americane, la produzione petrolifera iraniana era crollata dai quasi 4 milioni di barili al giorno estratti nel 2010 a meno di 2,5 milioni nel 2013. L’export era precipitato da 2,5 mbg a meno di 800mial bg nei periodi più bui. Un risultato a cui ha contribuito anche l’embargo petrolifero europeo scattato nel luglio 2012. Con la firma dell’accordo sul nucleare iraniano, nell’estate del 2015, e con la successiva rimozione delle sanzioni internazionali, a inizio 2016, la produzione petrolifera iraniania ha ripreso a correre a ritmi ben superiori alle aspettative. Così anche le esportazioni. L’Iran è così riuscito ad uscire dalla recessione provocata dalle sanzioni mostrando sorprendenti tassi di crescita. Oggi la Repubblica islamica esporta circa 2,6 milioni di barili al giorno di greggio. Il 38% di questo volume è destinato alle compagnie energetiche europee.
Ora l’Iran rischia di sprofondare di nuovo in una crisi economica. Ed anche se cercherà di vendere a prezzi scontati il suo greggio alla Cina e ad altri paesi disposti a sfidare le sanzioni americane, non riuscirà comunque a colmare il gap. Per la Repubblica islamica, e soprattutto per gli iraniani, già in grave difficoltà per il forte deprezzamento della valuta locale, si prospettano tempi duri.

Una guerra che nessuno vuole
Tra la Casa Bianca e il regime iraniano è in corso una preoccupante escalation, fortunatamente solo verbale. L’Iran non vuole certo una guerra. Ma anche nello staff di Trump non c’è tutta questa voglia di aprire un conflitto potenzialmente capace di incendiare tutto il Medio Oriente, già destabilizzato dai sette anni di guerra civile siriana. Non tanto per un confronto militare in cui gli Stati Uniti vantano un ’indubbia supremazia. Piuttosto perché una guerra con l’Iran avrebbe inevitabilmente un pesante impatto sull’economia mondiale, già in difficoltà per i primi effetti di un’altra guerra che Trump ha appena scatenato: quella dei dazi.

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