analisiLeadership

La settimana d’oro di Powell e quella nera di Trump

di Marco Valsania

Jerome Powell e Donald Trump

5' di lettura

JACKSON HOLE - Settimana d'oro per Jerome Powell e la sua Federal Reserve; settimana nera per Donald Trump e la sua Casa Bianca. Il contrasto non potrebbe essere più netto per chi cercasse oggi qualità di leadership, mercati compresi: Powell ha debuttato da chairman al Simposio annuale della Banca centrale, qui nel parco nazionale del Gran Teton in Wyoming, offrendo una chiara riaffermazione dell'impegno ad una calibrata politica monetaria di graduali rialzi dei tassi d'interesse, che né freni troppo né lasci correre eccessivamente le briglie dell'economia con l'obiettivo di salvaguardarne la salute, la longevità e l'equilibrio della sua salute.

Wall Street l'ha premiato, venerdì sera, mettendo a segno un nuovo record dell'indice azionario S&P 500, il primo da gennaio. Trump, a Washington, ha invece accumulato scandali domestici con tradimenti di ex fedelissimi che adesso collaborano con i procuratori nelle inchieste. E impasse internazionali: negoziati con la Cina sui conflitti commerciali hanno prodotto solo un nulla di fatto. Mentre ha in extremis cancellato un viaggio del Segretario di Stato Mike Pompeo in Corea del Nord indicando che sull'accordo di denuclearizzazione della penisola, finora vantato come vero - e unico - successo della sua politica estera, non ci sono sufficienti progressi.

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Il Presidente è riuscito a tenere ugualmente occupato Pompeo, ma non come sperava quest'ultimo: ha creato una nuova controversia quando gli ha ordinato di esaminare presunti genocidi di bianchi in Sudafrica - una campagna portata avanti da suprematisti e estrema destra.

Una Fed in missione
Powell ha riaffermato come l'obiettivo della Banca centrale sia massima crescita, occupazione e inflazione al 2 per cento. Ha detto che l'economia americana è oggi robusta, ma ha aggiunto che intende evitare due errori, che a volta hanno fatto capolino in passato: quello di rialzi troppo rapidi del costo del denaro che possano arrestarla e quella di fare invece troppo poco per scongiurare surriscaldamenti e eventuali impennate inflazionistiche.

Il secondo ha portato a effettivi errori negli anni della Grande Inflazione (Sessanta e Settanta); il primo è stato evitato solo grazie alla lungimiranza di Alan Greenspan negli anni Novanta della New Economy. Il cammino tra questi due potenziali passi falsi di politica monetaria, ha affermato, è quello che la Fed sta seguendo, di rialzi graduali e moderati dei tassi, che stato alle previsioni dovrebbero vedere le prossime mosse a settembre e probabilmente a dicembre. Con un cavata: che rimane pronta a correggere il tiro davanti ai dasti e segnali in arrivo dall'economia, secondo una ricetta ispirata al pragmatismo, gradualismo e “risk management”.

E una Fed indipendente
Nell'espletare la sua missione di timoniere, per quel che può, dell'economia, Powell ha implicitamente rivendicato l'indipendenza e credibilità della Fed, vale a dire i suoi strumenti principali per mantenere la fiducia di investitori e operatori, ancor più delle mosse concrete sui tassi. Non e' poco in questa era: a ricordare i costanti venti che scuotono la Banca centrale americana ci sono le critiche esplicite che le ha rivolto proprio Trump ancora nei giorni scorsi, alla vigilia di Jackson Hole: ha affermato che i rialzi dei tassi, per quanto moderasti, non gli piacciono affatto e che la Fed dovrebbe evitarli, perché danneggiano l'economia, gli americani e la sua politica. Anzi, forse proprio soprattutto la sua politica: la Casa Bianca sta cercando di spingere al massimo l'ottimismo sulla crescita alla vigilia delle elezioni di meta' mandato di novembre, dove il partito repubblicano del Presidente si gioca la maggioranza in Congresso (che potrebbe tra l'altro avere implicazioni anche per la spinta alle inchieste sui suoi scandali). Le critiche esplicite sulla politica monetaria sono un altro dei tabu' spezzati da Trump, finora al più erano riservate al Parlamento.

Trump “tradito” dai faccendieri
Il Presidente è finito sotto scacco in tribunale. Non direttamente, ma ugualmente tirato in ballo come mai prima negli scandali. Ha cominciato Michael Cohen, il suo ex avvocato personale, che si è dichiarato colpevole di violazioni delle leggi elettorali per aver orchestrato pagamenti a donne che accusavano Trump di relazioni extraconiugali.

Di più ha detto sotto giuramento di averlo fatto con l'obiettivo di “influenzare le elezioni” del 2016 e “in coordinamento e su istruzione” del candidato Trump. Cohen ha indicato di essere disposto a cooperare ulteriormente con le indagini e potrebbe avere informazioni rilavanti anche per il Russiagate, lo scandalo di possibili collusioni tra la campagna di Trump e Mosca e i sospetti di ostruzione della giustizia esaminati dal procurato speciale Robert Mueller. È poi arrivata la condanna dell'ex manager della campagna di Trump, Paul Manafort, per evasione fiscale e truffa, anche se lui per ora non coopera con le autorità (e Trump lo ringrazia apertamente via tweet mentre aggredisce Cohen).

Non è finita: è arrivata anche l'immunità concessa al magnate dell'editoria David Pecker, editore del National Enquirer, vicinissimo a Trump e che aveva contribuito a zittire le storie degli affaire extraconiugali, e nelle ultime ore al direttore finanziario della Trump Organization Allen Weisselberg, veterano da decenni dell'impero immobiliare e che a sua volta ha fornito informazioni ai magistrati, anche se non è chiaro di quale entità. Trump, forse in un sintomo di crescente preoccupazione, si e' scagliato anche contro le stesse norme del Dipartimento della Giustizia che consentono il cosiddetto “flipping”, vale a dire la cooperazione in cambio di pene meno severe, affermando che dovrebbe essere illegale. E ha attaccato il suo ministro della Giustizia Jeff Sessione, facendo balenatre una sua cacciata dopo le elezioni di midterm, chiedendogli di indagare sul partito democratico.

Trump “frustrato” da Kim e Xi
Trump ha subito battute d'arresto anche su due fronti internazionali caldi. Ha espresso, per la prima volta, frustrazione alla Corea del Nord e cancellato personalmente un viaggio a Pyongyang di Pompeo previsto nel fine settimana. “Credo che non stiamo compiendo sufficienti progressi”, ha affermato nell'annunciare la svolta. “Non sono soddisfatto”. Ma, in un segno delle tensioni e incertezze che circondano la politica estera di Trump, il Dipartimento di Stato è stato colto in realtà di sorpresa dalla decisione presidenziale: tutto era pronto per il viaggio domenica a Pyongyang e Pompeo aveva anche appena nominato nelle ore precedenti un suo inviato speciale, Stephen Biegun.
Trump è anche parso accusare Pechino di scarso supporto nei negoziati con Kim Jong Un. Ha citato la sua “più dura posizione sul commercio” quale ragione della inadeguata cooperazione cinese su Pyongyang. Anche con il governo di Xi Jinping, però, Trump può vantare oggi pochi progressi: dopo i reciproci colpi sferrati a base di dazi su un totale di 50 miliardi di dollari di beni di ciascun Paese, sono scattati negoziati a livello di delegazioni negli ultimi giorni. Ma, alla loro conclusione giovedì, non hanno prodotto risultati di nota. La Casa Bianca ha minacciato dazi su altri 200 miliardi di dollari di merci cinesi forse già a settembre che potrebbero scatenare un’ulteriore e pericolosa escalation del conflitto, una prospettiva che molti osservatori temono cominci a pesare proprio sugli orizzonti di quell'economia, globale a americana, oggi difesa dalla Federal Reserve di Powell.

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