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Nike, il nuovo testimonial è Kaepernick (l’atleta più odiato da Trump)

dal nostro corrispondente Riccardo Barlaam

Polemiche su Trump: "licenziare sportivi che insultano bandiera"

4' di lettura

Agli italiani appassionati di calcio il suo nome non dice molto. Eppure Colin Kaepernick, classe 1987, è un campione di football americano ma anche un simbolo negli Stati Uniti. Un irregolare. A metà tra Baggio e Balotelli. Amato o odiato. Comunque un fuoriclasse. Con enormi potenzialità. Sempre in attesa di spiccare il volo. Il più veloce in campo, quarterback di successo, per anni in forza ai San Francisco 49ers come professionista nella Lega Nfl. Da atleta studente, negli anni del college, ha vinto per due volte il titolo di giocatore offensivo dell’anno. Con diversi record di velocità all’attivo.
Colin è figlio di madre bianca e padre afroamericano. Adottato da una coppia bianca con altri due figli, dopo la perdita del terzo di figlio, da cui ha preso il cognome Kaepernick. Un cognome di lontane origini polacche che sembrano riportare addirittura all’astronomo Niccolò Copernico.

Il claim elaborato da Nike per Kaepernick

Testimonial «politico» di Nike
Nike lo ha scelto come testimonial, assieme ad altri atleti simbolo come Serena Williams e LeBron James, per la campagna pubblicitaria che celebra i trent’anni dello slogan «Just do it». Kaerpenick, bianco per metà, alto, atletico con una enorme chioma di capelli ricci black sotto il casco lo scorso anno è stato il primo atleta a inginocchiarsi durante l’inno nazionale americano prima di una partita, seguito da molti suoi compagni, per protestare contro le violenze della polizia sui neri.

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Colin Kaepernick con il pugno alzato, saluto delle Black Panthers

Le critiche di Trump
Un gesto per il quale è stato aspramente criticato pubblicamente da Donald Trump, arrivato a chiedere alla lega Nfl di sospendere gli atleti che si sono inginocchiati per protesta durante The Star-Spangled Banner, l’inno americano. «Kapernick andava sospeso dopo la prima protesta», aveva detto il presidente intervistato dalla Tv amica Fox News. Così è stato.

Senza contratto
A fine stagione nessuna società ha rinnovato il contratto a Kaepernick, che tuttora è senza una squadra. A novembre dello scorso anno il campione ha presentato un ricorso alla Nfl, accusandola di complotto nei suoi confronti. La battaglia legale è in corso. Amnesty International intanto ha nominato il campione di football «ambasciatore dell’anno». Dopo le proteste, nelle ultime due stagioni, le partite di football americano hanno registrato un drammatico calo di audience. Tanto che a maggio la Nfl è stata costretta ad annunciare una nuova policy per l’inno nazionale prima delle partite. Per togliersi dall’impaccio di un’America divisa in due, Espn e Cbs, i canali che hanno i diritti televisivi dei match di football, hanno deciso far partire le dirette subito dopo l’inno.

«Credere in qualcosa»
Nike ha appena annunciato di aver scelto Colin Kaerpernick come testimonial per il 30esimo anniversario della sua campagna «Just do it». Come teaser della pubblicità ha ripreso un tweet dell’atleta: «Credere in qualcosa. Anche se questo significa sacrificare ogni cosa». Le cronache sportive del prossimo campionato di football diranno se il campione americano, bianco per metà, di religione luterana, che ha tatuati sul corpo versi della Bibbia come «La gloria è di Dio», tornerà a calcare i campi di football e a far sognare i tifosi. Per adesso ci crede il brand Nike: «Noi crediamo – ha detto Gino Fasanotti vice responsabile di Nike per il Nord America al canale sportivo di Disney, Espn – che Colin sia uno degli atleti più carismatici della sua generazione, uno di quelli che ha il potere con lo sport di spingere il mondo avanti».

La campagna «Boycott Nike»
Una scelta che non è piaciuta a molti americani. Oggi su Twitter l’hashtag #NikeBoycott è uno dei primi trending topics negli Stati Uniti. Con migliaia di tweet di protesta contro la multinazionale dello sportswear, post con le foto di gente che brucia le scarpe e le magliette col «baffo». Altri come @sclancy79 scrivono: «@Nike mi costringe a scegliere tra le mie scarpe preferite e il mio Paese. Fino a quando la Bandiera Americana e l’Inno Nazionale saranno offensivi?» Critiche anche su Instagram: tra «Just Don’t» e «Just Blew It».

Giù in Borsa
Il titolo Nike a Wall Street risente del movimento di boicottaggio partito dopo la campagna. Già prima delle quotazioni le azioni della società di scarpe e abbigliamento sportivo cedevano circa il 2 per cento. A mercati aperti il calo è arrivato, al momento, oltre il 3 per cento. Insomma, rischia di essere un bagno di sangue per la capitalizzazione di mercato di Nike. Vista dagli occhi degli uomini di marketing, in ogni caso, la scelta di Kaepernick come testimonial sembra pagare da subito, almeno in termini di popolarità. Nella speranza che il movimento di protesta, come fu ai tempi d’oro del movimento No Global per il marchio Nike, non pesi troppo sui conti futuri della società americana.

Uno slogan fortunato
Lo slogan «Just do it» fu creato nel 1988 dal pubblicitario Dan Wieden dell’agenzia pubblicitaria Wieden-Kennedy di Portland, in Oregon. Wieden cercava «una frase morbida» che potesse rilanciare il brand del marchio sportivo in quegli anni all’inseguimento di Reebok. In seguito, Wieden nel documentario Art & Copy del 2009 (visibile su YouTube, per gli appassionati del genere), rivela che si ispirò a un racconto scritto da Norman Mailer nel 2009: The Executioner Song narrava la storia di Gary Gilmor, condannato a morte per due omicidi nell’Utah, uno che prima dell’esecuzione, quando gli chieserò di esprimere un ultimo desiderio, disse: «Let’s do it», facciamolo.

Vendite in aumento del 1000%
Da quella frase, il pubblicitario arrivò a «Just do it» che in italiano potrebbe essere «Fallo e basta». Lo slogan venne usato da Nike per la prima volta nel 1988 come ads per seguire l’impresa di Walt Stack, podista ottantenne che quell’anno riuscì, nonostante l’età, a concludere la maratona di San Francisco. Grazie al logo e a quel fortunato slogan motivazionale Nike divenne una multinazionale miliardaria: nei successivi dieci anni al lancio del brand «Just do it», le vendite Nike aumentarono di oltre il 1000 per cento.

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