L’INVESTITURA DI GRASSO COME LEADER DELLA SINISTRA

La presidenza del Senato, un ruolo che non porta fortuna politica

di Riccardo Ferrazza

(Ansa)

4' di lettura

Ha chiuso ieri l’assemblea che segna la nascita della lista unitaria della sinistra: Pietro Grasso, formalmente ancora presidente del Senato, ha fatto il suo esordio da leader politico dell’area che si raccoglie intono a Mdp, Si e Possibile. Un nuovo inizio per l’ex magistrato, già a capo della Direzione nazionale antimafia, i cui sostenitori auspicano una sorte migliore di quella capitata ai suoi predecessori sul sedile più importante di Palazzo Madama. Negli ultimi venti anni, infatti, quella carica non ha portato grande fortuna a chi l’ha occupata segnando più che l’inizio della carriera politica di fatto la conclusione.

Basta un rapido ripasso dei nomi per rendersene conto. Da Carlo Scognamiglio a Franco Marini, passando per Marcello Pera e Nicola Mancino: personalità politiche, dalle biografie molto diverse, che dopo aver ricoperto la seconda carica istituzionale (il presidente del Senato è vicario del Capo dello Stato) hanno finito per inabissarsi o essere travolti da altre vicende che li hanno sottratti alla prima pagina politica. Ci sono ovviamente le eccezioni, come Renato Schifani, predecessore di Grasso e come lui palermitano. Dopo l'incarico (2008-2013) è tornato al suo ruolo di senatore, prima dentro Forza Italia, poi aderendo al partito di Angelino Alfano (al tempo Ncd) e, infine, rientrato nella casa madre berlusconiana.

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È vero che la “maledizione” del Senato non ha sempre funzionato. Anzi. In passato Francesco Cossiga, per esempio, fu eletto presidente della Repubblica proprio mentre era presidente del Senato. In tempi più recenti, però, il fenomeno si è fatto ricorrente. E discorso simile potrebbe farsi per la carica di presidente della Camera, ora che Laura Boldrini medita il suo salto politico con Campo progressista di Giuliano Pisapia. Gli ultimi due presidenti, Gianfranco Fini e Fausto Bertinotti, usciti da Palazzo Montecitorio non sono più riusciti a rientrarvi.

Franco Marini fu eletto presidente del Senato nel 2006 dopo un duello con Giulio Andreotti che era sostenuto dal centrodestra. Rimase in carica fino alla caduta anticipata della legislatura, cioè ad appena due anni dalle elezioni. Da allora, però, le cose hanno cominciato a girare male. Già prima dello scioglimento delle Camere e poco dopo la caduta del governo di Romano Prodi, l’allora capo dello Stato Giorgio Napolitano gli affidò un mandato esplorativo per un governo in grado di approvare poco riforme e portare l’Italia al voto. Ma la missione si dimostrò impossibile. In seguito centrò la rielezione ma rimase fuori dal Parlamento alle elezioni del 2013, dopo essere riuscito a ottenere una deroga da parte del suo partito, il Pd. Quindi la grande delusione: per la successione di Giorgio Napolitano, quello stesso anno si crea una convergenza sul nome di Marini che però alla prima votazione si ferma a 521 voti, al di sotto del quorum richiesto (672 voti). Era il 17 aprile 2013: la carriera politica di Marini, di fatto, si conclude quel giorno.

Marcello Pera, filosofo della scienza e considerato tra i massimi studiosi italiani di Karl Popper, rimase sullo scranno più alto del Senato per un'intera legislatura, dal 2001 al 2006, durante il governo Berlusconi. Dopo quell’esperienza, però, la sua stella non ha più brillato molto. Saltata nel 2008 l'ipotesi di una sua nomina a ministro della Giustizia nell’Esecutivo Berlusconi, cominciò una discesa lenta e inarrestabile fino all’annuncio del suo ritiro dalla politica nel 2013. Concetto ribadito qualche tempo fa dopo un’ultima, fallimentare battaglia, quella del referendum istituzionale del 4 dicembre scorso. «Ho speso energie e denaro per la campagna referendaria, sostenevo il sì perché sostenevo la riforma della Costituzione e non Matteo Renzi». E Berlusconi? «Non ci sentiamo da anni, forse non mi risponde neanche più al telefono».

Anche a Nicola Mancino, classe 1931, esponente democristiano di lungo corso, le cose non sono andate troppo bene dopo essersi alzato dalla sedia di presidente del Senato. È vero che, passato il quinquennio a Palazzo Madama tra il 1996 e il 2001, ricoprì l’importante incarico di vicepresidente del Csm. Ma ormai da anni il suo nome è legato alla vicenda processuale della trattativa tra Stato e mafia: Mancino è infatti accusato di falsa testimonianza perché, secondo i magistrati palermitani, sarebbe stato uno dei garanti istituzionali in qualità di ministro dell’Interno del patto che componenti dello Stato avrebbero stretto con Cosa nostra negli anni delle stragi mafiose. Vicenda che ha portato con sé quell’altra, velenosa, delle intercettazioni tra l’ex capo dello Stato Giorgio Napolitano e lo stesso Mancino registrate durante l’inchiesta. Storia che causò il duro conflitto tra il Quirinale e la Procura di Palermo nel 2012 (con la storica testimonianza del presidente nella sala del Bronzino al Quirinale), la sentenza della Consulta e la distruzione delle bobine.

La galleria, limitata alla Seconda Repubblica, arriva fino a Carlo Scognamiglio. Economista, cominciò la sua esperienza politica nel 1992 con i liberali e nel 1994, elette nelle liste del Polo, a 49 anni diventò il più giovane presidente del Senato, battendo per un solo voto (162 a 161) Giovanni Spadolini. La legislatura durò appena due anni e, dopo quella esperienza, Scognamiglio divenne ministro della Difesa nel governo di Massimo D’Alema come esponente di Udr (alla quale aveva aderito lasciando il centrodestra). Nel 2008 si presentò con il Pli ma non fu rieletto. L’ultimo lancio di agenzia che lo riguarda risale al 2011.

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