LA RIFORMA UEM: LA PROPOSTA ITALIANA

Governance europea: un budget al ministro Ue delle Finanze

di Gianni Trovati

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3' di lettura

Non si giocheranno sul fiscal compact, passione del dibattito italiano, le fasi fondamentali della partita sulla riforma della governance europea, che si svilupperanno nei primi due-tre mesi del 2018 dopo il fischio d’inizio suonato dalla proposta Junker. Per misurare il grado reale d’influenza dell’Italia, che sarà però impegnata nelle stesse settimane nella più intricata delle competizioni elettorali recenti, bisognerà guardare ad altri quattro fattori delle regole in costruzione per l’Unione economica e monetaria: l’evoluzione della flessibilità, il profilo del futuro ministro delle Finanze dell’area euro, la creazione (o meno) di un meccanismo anti-crisi per combattere la disoccupazione ciclica e i passi avanti dell’Unione bancaria.

Con una premessa: le proposte italiane, riassunte nel position paper inviato a Bruxelles, osservano preoccupate la gelata prodotta dalla crisi nei rapporti fra cittadini e istituzioni europee. E per questo premono su meccanismi come il fondo «per i giorni di pioggia», cioè gli interventi automatici per contrastare shock occupazionali, che sono in grado di far sentire in modo più rapido e diretto il ruolo dell’Unione nella vita quotidiana delle persone. Ma in questo sentiero imboccano su molti temi una direzione opposta a quella più popolare a Berlino, in un bivio che si divarica soprattutto su Unione bancaria e vigilanza sui conti pubblici.

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Su quest’ultimo punto, che torna a vedere l’Italia nel ruolo scomodo del sorvegliato speciale per il debito a maggior ragione dopo le ulteriori incertezze nel timido piano sulle privatizzazioni, Roma si dice favorevole a nuove «cessioni di sovranità»; da indirizzare però a un organismo politico e non a meccanismi tecnici che facciano scattare tagliole automatiche su debito o sofferenze.

Il tema non è banale, vista l’aria di sovranismo che percorre la politica italiana ed europea. In soldoni, l’Italia promuove l’idea di un ministro delle finanze dell’Unione, che deve sedere nella commissione, sotto il controllo del Parlamento e, possibilmente, vestire la giacca di presidente dell’Eurogruppo per avere un ruolo più riconoscibile. A lui, nello scenario disegnato a Roma, toccherebbe il compito di sviluppare la nuova flessibilità, che per sottrarsi all’ormai solita trattativa autunnale con giudizio in primavera dovrebbe fondarsi su un’ottica pluriennale, ancorando gli spazi di bilancio agli impegni sulle riforme.

Per avere un ruolo e la possibilità di svolgerlo, ministro e Commissione dovrebbero poter contare su un portafoglio più robusto, e per alimentarlo il governo rilancia le ipotesi presentate qualche mese fa nel «Monti Report». Diverse le ipotesi elaborate per dare benzina finanziaria al motore europeo: la più suggestiva è la Web Tax continentale, che anche secondo il ministro Padoan deve rappresentare l’approdo minimo dei tentativi nazionali, mentre più vicine alla storia Ue sono le strade che passano da Carbon o Energy Tax. Le risorse dovrebbero sfociare in un piano Junker strutturale, per rilanciare gli investimenti da cui passa la riduzione delle distanze fra le economie Ue.

Solo apparentemente più tecnica la distanza che separa Roma e Berlino (e Parigi) in fatto di vigilanza bancaria. Nel documento, il governo rilancia la richiesta di mettere sotto esame i titoli illiquidi Level 3, cioè i derivati e gli altri strumenti sintetici che si concentrano nei bilanci di big bancari tedeschi e francesi senza far suonare gli allarmi di Francoforte: un altro rischio da «ridurre» prima della «condivisione», secondo la scansione cara a Berlino.

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