i dati

«Invasione islamica»? In Italia i musulmani sono meno del 5%

di Alberto Magnani

(Agf)

3' di lettura

«Islamizzazione», «sostituzione etnica» e, da poco, «salvaguardia della razza». La dichiarazione di Attilio Fontana, il sindaco di Varese che corre per la presidenza della regione Lombardia, ha riacceso gli animi su un cavallo di battaglia della destra populista: l'«invasione islamica» ai danni della comunità europea, in questo caso rappresentata dai cittadini e non dall'apparato politico di Bruxelles. Fontana, in un'intervista all'emittente Radio Padania, ha parlato dei rischi per la «razza bianca» in arrivo dai migranti. Un concetto poi difeso dal segretario della Lega Nord, Matteo Salvini, evocando i rischi della «islamizzazione» che si starebbe propagando in tutta Europa.

A restare in sospeso, però, sono i numeri effettivi del fenomeno: quanti sono i musulmani nel Vecchio Continente? Secondo un'indagine aggiornata a fine 2017 del Pew research centre, un accreditato istituto di ricerca statunitense, gli islamici registrati in Europa sono circa 25,7 milioni: il 4,9% di una popolazione da oltre 740 milioni di persone, con picchi in Francia (5,7 milioni, l'8,8% della popolazione) e Germania (circa 4,9 milioni, il 5,5% dei residenti). Tra 2010 e 2016 si è assistito a una crescita di circa un punto percentuale, dal 3,8% al 4,9% (da 19,5 milioni a 25,8 milioni). I numeri potrebbero raddoppiare entro il 2050, arrivando comunque a un massimo dell'11,2 per cento. In altre parole una media di un cittadino Ue islamico ogni 10, poco sopra gli standard attuale della popolazione francese.

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Il caso italiano: pochi islamici, tanta paura
E in Italia? Sempre secondo i dati del Pew research centre, nella Penisola si registrano 2,8 milioni di islamici, pari al 4,8% della popolazione. Una fotografia che si discosta poco dalla stima di 2,6 milioni elaborata da Ismu (Iniziative e studi sulla multietnicità), una fondazione che si occupa di ricerche su società multiculturale e studi migratori. Il paradosso è che i numeri registrati in Italia, uguali o inferiori alla media europea, sfociano in un'ostilità verso l'Islam maggiore di quella avvertita nelle nazioni che ospitano le comunità musulmane più popolose. Stando alle rilevazioni del Prc, il 69% degli intervistati italiani esprime un «giudizio negativo» sulla confessione. Una quota inferiore solo al 72% dell'Ungheria, dove si contano appena 5mila musulmani. Viceversa, in Paesi come Francia e Germania (quasi 11 milioni di islamici in due) il «giudizio sfavorevole» degli intervistati scivola fino al 29 per cento. «Niente di nuovo: quando non si conosce si ha paura. Succede anche nell'Islam, tra sunniti e sciiti», spiega Paolo Branca, professore di islamistica all'Università Cattolica di Milano. Secondo Branca, il disorientamento nei confronti delle comunità islamiche può essere «fisiologico, soprattutto quando ci sono 100mila musulmani solo nella città metropolitana di Milano». Ma lo spettro di una islamizzazione è «abbastanza fantasioso – dice – Più che integrazione servirebbe interazione. La comunità esiste da decenni e fa specie che non ci sia ancora una politica».

Il flusso di stranieri è stazionario
Sullo sfondo delle polemiche, intanto, la popolazione straniera registrata in Italia si mantiene su livelli stazionari. I cittadini “internazionali” erano poco più di 5 milioni nel 2015, sono rimasti poco più di 5 milioni nel 2017. L'immobilità delle statistiche è dovuta a un bilanciamento tra gli ultimi arrivi e il passaggio alla cittadinanza italiana dei residenti di lungo corso. I “nuovi stranieri” si sostituiscono a quelli che sono diventati italiani a tutti gli effetti, lasciando il totale invariato. Giancarlo Blangiardo, ordinario di Demografia all'Università Bicocca di Milano, spiega che solo nei prossimi 10 anni (2018-2028) si potrebbe viaggiare nell'ordine delle 200mila nuove acquisizioni di cittadinanza l'anno. «Sono numeri che segnano il passo nel processo di “maturazione” di questi cittadini - spiega Blangiardo - Se sono arrivati ad acquisire la cittadinanza, significa che non c'è più un problema di adattamento».

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