germania

Schulz rinuncia agli Esteri, partito nel caos

di Roberta Miraglia

Martin Schulz (Epa/Felipe Trueba)

3' di lettura

Resa dei conti in casa Spd: Martin Schulz è stato costretto a rinunciare al ministero degli Esteri che aveva riservato a se stesso nell’accordo di Grande Coalizione con Angela Merkel, dopo aver giurato, in campagna elettorale, che non sarebbe entrato in un governo guidato dalla cancelliera. Un’inversione a U che rischiava di irritare ulteriormente la base del partito, già ritrosa a dare il via libera alla GroKo. Poche parole, venerdì pomeriggio, hanno fatto calare il sipario sull’ex presidente del Parlamento Ue che mercoledì aveva annunciato l’avvicendamento al vertice del partito con Andrea Nahles in vista dell’incarico di governo.

«Rinuncio a fare il ministro - ha dichiarato Schulz - e spero che finisca il dibattito sulle questioni personali». Una rinuncia per il bene dell’Spd e del Paese, ha sottolineato Nahles, rendendo l’onore delle armi: «Una prova di nobiltà e grandezza d’animo». Ma i veleni sparsi a piene mani in questi giorni di fibrillazione non sono evaporati con il suo passo indietro. Schulz non ha avuto scelta, fanno notare gli osservatori politici: il partito in rivolta, le 6mila mail di protesta giunte in poche ore; la tenacia del ventottenne Kevin Kühnert che sta battendo la Germania palmo a palmo per chiedere ai membri dell’Spd di votare no nel referendum che si svolgerà dal 20 febbraio sono tutti campanelli d’allarme forti e chiari per l’Spd. Ha pesato come un macigno, infine, la lotta di potere - a tratti scomposta - ingaggiata con l’ex amico Sigmar Gabriel, attuale ministro degli Esteri, che giovedì ha reagito furiosamente allo scippo e sembra ora destinato ad essere travolto insieme a Schulz dal dramma a tinte shakespeariane in cui si dibatte la socialdemocrazia tedesca, uscita ridimensionata ai minimi storici dalle elezioni di settembre con il 20,5 per cento dei consensi.

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Quello di Schulz avrebbe potuto essere il “Jeremy Corbyn moment”, il leader del Labour inglese che ha rianimato il partito nel voto anticipato del 2017 ottenendo il 40% rispetto al 30,5% di Ed Miliband nel 2015. E invece. A Berlino il 24 settembre l’Spd di Schulz ha contato 5 punti percentuali in meno rispetto al 2013, quando al timone c’era Sigmar Gabriel. Sono lontanissimi i tempi di Oskar Lafontaine che nel 1998 raccolse il 40,9 per cento.

Tra l’ex presidente del Parlamento europeo e Gabriel si è svolto un dramma in tre atti, ha scritto la Faz. Finché i due hanno regnato distanti, l’uno a Bruxelles e l’altro a Berlino, l’amicizia è durata (primo atto). Quando nel 2017 Schulz ha scelto di tornare, appoggiato da un partito a caccia del Jeremy Corbyn moment, sono cominciate le incomprensioni, neppure celate durante la campagna elettorale (secondo atto). Infine, la decisione di prendere la poltrona degli Esteri che ha scatenato l’ira di Gabriel: per 24 ore il ministro ha taciuto e ha pure cancellato impegni pubblici. Poi l’esplosione: «Non è stato ai patti» avrebbe esclamato; «ho molto seguito nell’elettorato»; «finalmente, mi ha detto mia figlia, passerai più tempo con noi che con quell’uomo con i peli in faccia» (riferimento alla barba di Schulz).

A dare numeri alla tragedia che si andava consumando è arrivato infine il sondaggio Forsa: i tre quarti dei tedeschi pensa che Schulz non dovrebbe diventare ministro degli Esteri (solo il 25% è per il sì). Non restava che il passo indietro.

Mentre alla Willy Brandt Haus, sede dell’Spd a Berlino, volano gli stracci, le cose non vanno molto meglio alla Cdu. Per la prima volta, in modo aperto, tra i ranghi del partito si parla della successione ad Angela Merkel, rea di aver chiuso un patto per governare che è un’«umiliazione», con la cessione delle Finanze ai socialdemocratici. Anche in casa Cdu sono i giovani a guidare la rivolta. «Vogliamo facce nuove, altrimenti l’atmosfera politica resterà molto negativa» ha detto Paul Ziemiak, leader del movimento giovanile che conta 155mila iscritti. La politica tedesca sembra pronta a un ricambio generazionale.

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