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Un Pd spaccato che non aiuta Mattarella nelle sue scelte

di Emilia Patta

(ANSA)

4' di lettura

L’attesa direzione del Pd di oggi finirà per rimandare la vera resa dei conti all’assemblea, che probabilmente sarà convocata entro maggio, per imboccare la strada che il partito seguirà per scegliere il successore del segretario dimissionario Matteo Renzi: o far eleggere il nuovo leader direttamente dal “parlamento” di circa mille delegati, o avviare subito il congresso con primarie da svolgersi a settembre. Perché alla fine il voto sulla linea da tenere per la formazione del governo - se cioè avviare o no il dialogo con il M5s così come chiesto dal Capo dello Stato Sergio Mattarella con l’incarico esplorativo affidato la scorsa settimana al presidente pentastellato della Camera Roberto Fico – non ci sarà semplicemente perché tale opzione è uscita definitivamente di scena dopo il fermo niet di Renzi arrivato via tv domenica sera.

I renziani si apprestano a rinnovare la fiducia al segretario reggente Maurizio Martina, come chiedono gli avversari dell'ex premier capeggiati da Dario Franceschini, ben sapendo che si tratta di una fiducia a tempo per questa ulteriore fase di consultazioni che si apre ma che finirà con la convocazione dell’assemblea. E non è certo Martina il candidato renziano nel caso in cui si scelga infine l’elezione in assemblea rimandando il congresso: l’anti-Martina potrebbe essere il “pontiere” Lorenzo Guerini ma si fanno anche i nomi di Ettore Rosato e Debora Serracchiani. Nessuno dei tre appartiene al cosiddetto giglio magico, ma chiunque sarà scelto avrà il delicato incarico di compilare le liste nel caso in cui la situazione politica di stallo generale dovesse precipitare il Paese verso le urne in autunno.

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Renzi ha per ora i numeri dalla sua parte, come dimostra il documento dei parlamentari che ribadisce la linea del no a governi guidati da Luigi Di Maio o Matteo Salvini firmato alla vigilia della direzione da 77 deputati su 111 e da 39 senatori su 52. E anche in direzione, sulla carta, i renziani hanno 50 voti di scarto rispetto al composito fronte avversario. Ma, al di là dei numeri, la prudenza di Renzi rispetto a una possibile conta, prudenza che ha portato alla decisione di votare in favore della fiducia temporanea a Martina, dipende anche dal peso dei dirigenti in campo schierati: in caso di conta su Martina, l'ex premier avrebbe rischiato di trovarsi dalla parte opposta non solo rispetto a Dario Franceschini e Luigi Zanda, ma anche rispetto a nomi come quello del fondatore del Pd Walter Veltroni, del ministro Marco Minniti, del premier Paolo Gentiloni e di un ex ds come Piero Fassino. Come ha buon gioco a sottolineare Franceschini parlando con i suoi, «da una parte l'Ulivo, dall’altra gli ultrà renziani».

Come che sia, la fotografia è senz'altro quella di un partito irrimediabilmente spaccato. E solo un congresso vero potrà risolvere i nodi di una successione incartata - con Renzi dimissionario ma di fatto ancora decidente - e di come rilanciare il partito dopo una sconfitta storica con cui, anche per via dell’impasse sul governo, né maggioranza né minoranza hanno ancora fatto i conti. La ferma opposizione di Renzi all’ipotesi di un governo con il M5s ha una ragione strategica e identitaria condivisa anche da alcuni dei suoi oppositori interni: l’ex premier è rimasto molto colpito dalle parole di Fassino l’altra sera a Porta a porta, che prefigurava un nuovo bipolarismo con il centrodestra a trazione leghista da una parte e l'alleanza tra il M5s e il Pd dall'altra.

Agli occhi di Renzi si tratta di un bipolarismo tra due diversi e pericolosi populismi che straccia le ragioni identitarie del Pd. «Su questo sarà il congresso a dire la sua, ma io a quello schema non ci starò mai», dice con parole che sembrano non escludere né un suo ritorno in campo diretto alle prossime primarie né una scissione in caso di sconfitta della sua linea. Il fatto è che le dilaniazioni del Pd avvengono in un momento in cui il Paese rischia di avvitarsi attorno a una crisi istituzionale profondissima per mancanza di una maggioranza che riesca a far partire un governo.

Un Pd così diviso, insomma, non aiuta certo il Presidente a trovare una soluzione. Perché è vero che nessuno del Pd, neanche Renzi, ha mai escluso la partecipazione a un governo di scopo, di transizione o istituzionale che dir si voglia: per quello il Pd c'è. Ma anche l’ipotesi in queste ore sul tavolo di un governo di scopo per rifare la legge elettorale e tornare al voto dopo aver approvato la legge di bilancio può farsi concreta solo nel caso in cui partecipassero tutti e tre i poli. Ché in caso di siffatto governo appoggiato dal centrodestra e dal Pd senza il M5s, ammesso che Matteo Salvini dia mai il suo via libera, è facile immaginare che il fronte anti-renziano ne approfitterebbe per attaccare Renzi accusandolo di aver tramato da subito per accordarsi con la destra e per questo di aver fatto saltare il tavolo con il M5s. Insomma, qualsiasi soluzione Mattarella metterà in campo avrebbe bisogno di un'unità tra i democratici che non si riesce a vedere in queste ore confuse. Anche di questo si terrà conto al Quirinale a partire da stasera.

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