oggi l’incontro salvini-di maio

Si complica il negoziato di governo: «Senza intesa sul premier si rivota»

di Barbara Fiammeri e Manuela Perrone

Ansa

4' di lettura

Dallo stallo per arrivare all’accordo allo stallo sul nome del premier. Al secondo giorno di incontri la trattativa per il governo giallo-verde subisce una battuta d’arresto. Si confida in queste 48 ore per sbloccare l’impasse, ma Lega e M5S non escludono che si possa andare ai tempi supplementari. «Dobbiamo chiudere il prima possibile, ma se serve un giorno in più credo che non cambi molto», ha affermato Luigi Di Maio. Che per la prima volta, come due giorni fa aveva fatto Matteo Salvini, ha aggiunto: «Se non si chiude si torna al voto».

Il nuovo faccia a faccia tra i due leader, ieri, non ha prodotto accelerazioni. Anzi. L’assenza di una convergenza sul famoso «premier terzo» si è risolta nella riproposizione di Di Maio o di Giancarlo Giorgetti, e naturalmente nessuno dei due nomi ha superato il test. Non solo. Ieri si è consumata la rottura tra Di Maio e Giorgia Meloni. Un vertice nel quale, secondo la presidente di Fdi, Di Maio avrebbe chiesto il sostegno alla sua premiership in cambio di un ingresso nel governo. Al “no” di Meloni, la risposta è stata l’esclusione. Per il capo politico M5S il partito di Meloni è troppo a destra. E, in effetti, uscendo dall’incontro ha confermato di aver spiegato alla leader «perché Fdi non può stare nel contratto di governo».

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Il “no” a Fdi certo non aiuta Salvini («Non so come si ponga Matteo», ha chiosato Meloni) e assottiglia ancora di più l’eventuale maggioranza giallo-verde al Senato, che attualmente può contare soltanto su sei voti in più. Tanto che già sarebbe partita una campagna acquisti nel Misto. Intanto Silvio Berlusconi, rinfrancato dalla riabilitazione decisa dal Tribunale di sorveglianza, resta alla finestra anche perché attende la scelta del premier. Dal suo staff viene smentito l’auspicio del fallimento dell’intesa «perché altrimenti mettono la patrimoniale», ribadendo che non considera un «tradimento» il tentativo di Salvini con Di Maio.

Oggi il palcoscenico si trasferisce a Milano, nella roccaforte leghista. Altro fuori programma, che è un messaggio chiaro da parte di Salvini dopo che ieri Di Maio aveva chiesto di far slittare alle 12 l’appuntamento fissato fin dal giorno prima per le 9.30. Una richiesta che il segretario del Carroccio ha mal digerito (nel primo pomeriggio aveva il saggio di danza della figlia). E così sia il vertice politico sia quello tecnico sui programmi si terranno al Pirellone nel primo pomeriggio.

Ma anche sul «contratto di governo» e sui grandi dossier, Ilva in testa, le posizioni si sono irrigidite, tra nodi politici (immigrazione e conflitto d’interessi) e tecnici (le coperture per la nuova «Flat tax»). Al termine dell’incontro nessuna nota congiunta. Sull’Ue, mentre Salvini arringava sostenendo che bisogna «difendere l’Italia in Europa», dal M5S arrivava la rassicurazione che non ci saranno forzature sul deficit e che l’obiettivo è rispettare i target. Parole che servono a tranquillizzare chi, come il premier uscente Paolo Gentiloni ieri a Firenze con Juncker e Tajani, ammonisce il futuro governo a non disperdere gli sforzi fatti in questi anni.

Che la tensione sia risalita lo conferma l’arrivo ieri a Roma di Beppe Grillo e Davide Casaleggio, che hanno cenato all’Hotel Forum con Di Maio. Il figlio del cofondatore M5S, presentando in Senato la nuova funzione “Scudo della Rete” (un pool di avvocati a disposizione di iscritti ed eletti per “difendersi”, in primis dalle accuse di diffamazione), ha confermato che su Rousseau si terrà il “referendum” sul contratto di governo. Citando il modello Spd e specificando che il responso online sarà «determinante». Dichiarazioni che hanno fatto infuriare Salvini. La domanda è sempre la stessa: «Chi comanda nel M5S: Di Maio o Casaleggio?». Una domanda che pesa soprattutto in prospettiva: se il governo partirà, ci saranno passaggi stretti da affrontare e il pensiero di essere appesi agli aut aut della rete preoccupa i leghisti.

Ma il voto su Rousseau arriverà inevitabilmente solo dopo la decisione sul premier. Anche perché se dev’essere «una figura di altissimo profilo», come si affannano a ripetere i Cinque Stelle, è presumibile che sul contratto voglia mettere il suo sigillo. Così come un sigillo decisivo sarà quello del Quirinale, pure sui ministri di peso: Esteri, Interni, Economia e Difesa.

Il totonomi impazza. Giorgetti continua a essere citato tanto per la premiership (per cui continua a circolare anche il nome della segretaria generale della Farnesina, Elisabetta Belloni e spunta quello di Giacinto della Cananea) quanto per l’Economia o come sottosegretario a Palazzo Chigi. Di Maio, se non otterrà lo scranno più alto di Palazzo Chigi, punta agli Esteri. Pronti anche i pentastellati Vincenzo Spadafora, Alfonso Bonafade, Stefano Buffagni. E Salvini? Escluso che sia lui a sedere sulla poltrona di presidente del Consiglio, potrebbe avere il ruolo di vice in caso il premier sia lontano dalla Lega anche se per lui la priorità resta l’Interno. I leghisti ambiscono poi a Trasporti, Agricoltura e Difesa, dicastero per cui si parla di Giacomo Stucchi, ex presidente Copasir, che potrebbe anche ricevere la delega per i Servizi.

Tessere di un puzzle che va fatto quadrare. Gli ottimisti di entrambi i fronti sono convinti: «Il governo si farà. Altrimenti poi come lo spieghiamo agli elettori?».

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