dopo l’assemblea

Tregua armata nel Pd, ma ormai nel partito convivono due anime

di Emilia Patta

(ANSA)

4' di lettura

Alla fine un Pd ancora scioccato dalla sconfitta elettorale del 4 marzo e dalla formazione del governo giallo-verde egemonizzato dal leader della Lega Matteo Salvini sceglie la via più semplice, quella dell’unità attorno alla guida – sia pure temporanea – dell’ex vicesegretario di Matteo Renzi. L’elezione di Maurizio Martina a segretario da parte dell’assemblea avviene quasi all’unanimità, senza sorprese (solo 7 i voti contrari, 13 gli astenuti).

Tregua armata: sì a Martina
L’accordo tra i vari big del Pd è di avviare il congresso in autunno in modo da concluderlo con le primarie tra febbraio e marzo, in tempo per le elezioni europee del giugno 2019. Martina sarà dunque un segretario traghettatore, che preparerà il confronto vero solo rimandato di qualche mese. «Propongo che il partito avvii un percorso congressuale straordinario da qui a prima delle europee che ci porti a elaborare idee, persone, strumenti nuovi. Dobbiamo riorganizzare tutto – sono le parole del nuovo segretario -. In autunno terremo i congressi territoriali, perché nei territori il partito è collassato. E poi a ottobre un grande appuntamento che si rivolga al Paese. Chiedo di poter fare un lavoro ricostruttivo e rifondativo: in ballo ci sono le ragioni fondative del Pd».

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Blair contro Corbyn
Già, le ragioni fondative. Perché mai come ora, proprio mentre l’assemblea elegge un segretario all’unanimità, il Pd è stato diviso. Si è visto plasticamente all’Ergife durante il discorso di apertura dell’ex segretario e premier Renzi , con una parte dei delegati in piedi per la standing ovation e una parte fischiante e contestante. Da un lato definire, o ridefinire, che cosa significa essere un partito di sinistra di governo mentre in tutto l’Occidente avanzano i populismi di destra (e qui fa bene il premier venuto dopo Renzi, Paolo Gentiloni, a ricordare ai democratici il contesto internazionale della sconfitta). E su questo punto Renzi nel suo discorso, per nulla conciliante, è stato molto netto. A chi come Martina guarda agli scissionisti di Leu (è di un paio di giorni fa l’incontro con Pier Luigi Bersani), Renzi ricorda che «ripartenza non può essere ricostruire un simil Pds o una simil Unione. Se qualcuno pensa che sia la nostalgia la chiave non coglie la novità». La parte renziana del partito non è intenzionata a fare passi indietro sulla via del riformismo, insomma, e non a caso nel suo discorso Renzi cita Tony Blair tra i fischi di una parte della platea («smettiamola di considerare nemici quelli accanto a noi, ci rivediamo al congresso: riperderete il congresso e il giorno dopo tornerete ad attaccare chi ha vinto», è la replica stizzita). Blair contro Corbyn, insomma.

Il nodo delle future alleanze
Alla questione dell’identità si lega poi la questione fondamentale delle alleanze. Perché la spaccatura profonda del Pd è rimasta là, a quell’intervista televisiva di Renzi in cui veniva stroncata la possibilità di un accordo tra Pd e M5s nei giorni delle consultazioni per la formazione del governo. Nella visione renziana il Pd è alternativo al M5s, considerato una costola leghista piuttosto che una costola della sinistra. «Rispetto chi dice che il M5s è la nuova sinistra, sono cantanti e intellettuali, ma io trovo che sia la vecchia destra. Restano una corrente della Lega». E in questa visione gli alleati in vista delle europee del prossimo anno sono gli europeisti e antipopulisti del vecchio continente, e il riferimento non può che essere il presidente francese Emmanuel Macron tanto inviso alla sinistra. «Di Maio dice che il nemico numero uno è Macron. Capisco che attaccare i francesi ti dà like su Facebook, specie durante i Mondiali, ma Emmanuel Macron è uno dei punti di riferimento contro i populisti, per impedire che diventino con la Lega delle leghe la prima forza del Parlamento Ue».

Gli anti-Renzi e la porta socchiusa al M5s
Gli anti-Renzi, che si stanno coagulando attorno alla candidatura del governatore del Lazio Nicola Zingaretti , ragionano invece nell’ottica di un centrosinistra tradizionale che raccolga tutte le forze a sinistra del Pd e guardano alla sponda dei Cinque stelle. In un sistema ormai tripolare – è lo schema di Zingaretti ma anche di Gentiloni, che del costituendo nuovo centrosinistra punta a fare il candidato premier alle prossime politiche – il centrosinistra a guida Pd deve per forza cercare alleati se vuole tornare al governo. Mirando appunto a rompere l’asse “populista” ora al governo nella convinzione che l’alleanza tra M5s e Lega non sia strutturale. Certo prima occorre vincere le prossime elezioni, ossia arrivare primi, come ha sottolineato lo stesso Gentiloni in una recente intervista televisiva. Ma la porta ai Cinque stelle resta socchiusa.

Due partiti in uno: per quanto?
Possono due visioni così diverse restare insieme? Potrà la parte sconfitta accettare l’esito del prossimo congresso restare nel partito? Non sarà facile. Renzi ha ribadito anche ieri che il suo posto è e resta nel Pd, deludendo i suoi avversari interni che sperano neanche tanto velatamente in una sua uscita. Contro Zingaretti i renziani sperano di poter schierare un candidato del calibro di Graziano Delrio . Mancano ancora mesi e i giochi sono aperti. Ma certo è difficile immaginare che in caso di sconfitta al congresso Renzi e i suoi restino in un partito che si “riconcilia” con Bersani e si allea con il M5s. Insomma, lo scontro decisivo è solo rimandato.

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