IL GOVERNO GIALLO VERDE

Dalla Russia a Orbàn: le distanze tra M5s e Lega in politica estera

di Andrea Carli

Sulle sanzioni europee al premier ungherese Orbàn si è manifestato uno strappo nell’esecutivo Conte, con M5s che ha votato a favore e la Lega contro (foto Ansa)

3' di lettura

Lo strappo sul test Orbàn, con i due azionisti di maggioranza dell’esecutivo Conte che hanno preso posizioni non solo diverse, ma opposte - i Cinque Stelle a favore delle sanzioni contro l’Ungheria; la Lega contro - si inserisce in un ambito, quello della politica estera, in cui le distanze tra le due forze politiche sono più evidenti.

A cominciare dal contratto per il governo del cambiamento, alla base dell’intesa che ha portato alla nascita dell’esecutivo giallo verde, in cui da una parte si parla dell’appartenenza all’Alleanza atlantica con gli Usa quale alleato privilegiato (posizione sostenuta dai Cinque Stelle: il primo viaggio all’estero da capo politico di Luigi Di maio nella veste di capo del Movimento è stato a Washington); dall’altra si prevede un’apertura alla Russia, a cominciare dall’”opportuno” ritiro delle sanzioni imposte a Mosca dall’Unione europea all’indomani della crisi in Ucraina (posizione, quest’ultima, in più di un’occasione sostenuta da Matteo Salvini, segretario federale del Carroccio). Alla prova della “realpolitik” l’Italia ha scelto di non mettere in discussione la linea europea: il Consiglio Ue che si è riunito a Bruxelles il 28 e il 29 giugno ha fatto il punto sullo stato di attuazione degli accordi di Minsk, e ha deciso di prorogare all’unanimità le sanzioni economiche su settori specifici dell’economia russa al 31 gennaio 2019. L’Italia, che nei giorni caldi della vigilia aveva minacciato il suo no al rinnovo delle misure restrittive, alla fine si è allineata. Dietro a questa decisione, un teso braccio di ferro Lega - Cinque Stelle, che si è risolto nella decisione di non strappare con Germania e Francia.

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Quello sull’Ungheria è il caso più evidente delle divergenze in materia di politica estera all’interno dell’esecutivo, ma potrebbe non essere l’unico. L’incontro recente tra il ministro degli Affari esteri Moavero e Khalifa Haftar, l’uomo forte della Cirenaica e rivale del presidente del Consiglio presidenziale libico, Faez Al Serraj, ha segnato un cambiamento della linea di politica estera dell’Italia nei confronti della Libia. Dopo aver dialogato in maniera prioritaria (e ufficialmente esclusiva) con Serraj, il premier riconosciuto dalle Nazioni Unite, Haftar - sostenuto da Francia, Russia, Egitto ed Emirati Arabi Uniti - ha alla fine acquisito, a tutti gli effetti, lo status di interlocutore del governo italiano. Una scelta che è stata giustificata con la necessità di coinvolgere tutti gli attori della partita libica in vista della conferenza sul paese del Nord Africa che si dovrebbe tenere in Italia a novembre, e alla quale a questo punto dovrebbe partecipare anche Haftar.

All’interno dell’esecutivo si vanno così delineando due posizioni. Da una parte quella del responsabile della Farnesina, che incontrando Haftar dimostra di voler mantenere un dialogo con la Francia, l’altro paese europeo impegnato nella non facile stabilizzazione della Libia. Un interesse quello francese che nasce dalla convinzione di poter ottenere dei vantaggi anche dal punto di vista dello sfruttamento delle ingenti risorse di petrolio e gas di quel paese, consentendo alla Total di guadagnare terreno sull’Eni.

Di Maio e Salvini sono più a favore della linea “classica”, quella del Governo di accordo nazionale unico interlocutore. I due vicepremier criticano il presidente francese Emmanuel Macron per le operazioni di disturbo che di recente, e in più di un’occasione, ha promosso, nel tentativo di scalzare l’Italia dalla regia delle iniziative per la stabilizzazione del paese africano. A influire è la rivalità tra due diverse visioni dell’Europa: quella sovranista di Salvini e quella più “europeista”, stando almeno alle dichiarazioni, dell’inquilino dell’Eliseo.

Un banco di prova sarà sull’ambasciatore italiano Giuseppe Perrone, dichiarato “persona non gradita” dallo stesso Haftar, dopo che il diplomatico aveva sottolineato che non ci sono allo stato attuale le condizioni di sicurezza per andare alle urne il 10 dicembre, come invece chiede la Francia. Se dovesse esserci un avvicendamento di Perrone, che nei giorni degli scontri recenti di Tripoli era a Roma, si potrebbe delineare il superamento di una linea sull’altra. E non si escludono nuovi strappi.

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