attention economy

Pubblicità online, così social e aziende fanno soldi sui nostri click

di Alberto Magnani

(Agf creative)

4' di lettura

Mentre leggete queste righe, state consumando una risorsa che viene valutata e commercializzata online. La vostra attenzione: la capacità di concentrarsi per secondi e minuti (anche ore, ma è più raro) sui contenuti che scorrono sul Web. È il bene che tiene in piedi l'intera industria dell'advertising digitale, la pubblicità veicolata in Rete, cresciuta fino a raggiungere un volume d’affari globale. Secondo i numeri forniti da Statista, un portale di ricerca, la spesa globale per il settore viaggia a circa 230 miliardi di dollari nel 2017 e potrebbe lievitare a 335,5 miliardi di dollari entro il 2020.

Soldi incassati per posizionare banner, link e suggerimenti negli spazi con maggiore visibilità per i consumatori, sottoponendoli a un «bombardamento» di input commerciali senza precedenti. Il meccanismo di fondo è sempre quello della pubblicità classica, consistente nell’attirare l’attenzione e stimolare l’interesse all’acquisto. Ma il processo è divenuto sempre più pervasivo grazie all'affinamento di tecniche che permettono di centrare i bisogni di un certo consumatore e offrire quella che dovrebbe essere la soluzione ad hoc. L’espressione tecnica adottata dal marketing è to target: letteralmente, colpire o bersagliare.

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Come siamo colpiti dalla pubblicità
Tradotto in pratica, “targettizzare” significa inviare a un utente la pubblicità più in linea con i suoi interessi o le ricerche disseminate in Rete. Non è un mistero (né un illecito) che le società di digital marketing profilino i consumatori in base alle informazioni raccolte online, dall’anno di nascita ai luoghi più frequentati in base alla geolocalizzazione sui propri dispositivi. Ed è proprio l’aggiornamento continuo e sempre più dettagliato sull’identikit degli utenti che consente di bersagliarli con spot o notifiche calibrate su misura per catturarne l’attenzione, inseguendoli sui tutti i dispositivi disponibilli con algoritmi e sistemi automatici .

Come spiega Umberto Panniello, ricercatore al Politecnico di Bari ed esperto di marketing, business intelligence e modelli di e-business, «le strategie di digital marketing più efficaci sono basate sull'analisi dei dati degli utenti (dai loro click agli acquisti passati) - dice - sulla creazione di un loro profilo e sull'individuazione del matching esatto tra tale profilo e il prodotto, servizio o messaggio comunicativo migliore».

Oltre al lavoro di profilatura, l’advertising digitale deve pianificare anche dove localizzarsi e come entrare in contatto con l’utente per assicurarsi un impatto maggiore sulla sua attenzione. Dal primo punto di vista, la destinazione “fisica” più in crescita è quella dei dispositivi mobili, sostenuti da investimenti in pubblicità che - sempre secondo Statista - potrebbero raggiungere i 247,4 miliardi di dollari entro il 2020. Il bacino di riferimento, del resto, sono i circa 4,5 miliardi di utenti di smartphone distribuiti in tutto il mondo e il loro rapporto sempre più intenso con i propri dispositivi: secondo un’indagine di Dscout, una società di ricerca e consulenza, tocchiamo il display del nostro smartphone una media di 2.617 volte al giorno, con picchi sopra alle 5mila volte nel caso degli utenti più ossessivi. Non è difficile capire l’interesse a far spuntare notifiche che «ci potrebbero interessare» anche quando si consultano i propri dati sulla app bancaria o si cercano una bici libera nelle piattaforme di bike sharing.

Dal punto di vista delle tecniche di approccio, sta cambiando del tutto il paradigma che regolava il rapporto tra annuncio e fruitore finale. Le pubblicità non si limitano a spuntare sotto forma di banner o notifiche, tutto sommato simili alle vecchie inserzioni, ma si propongono in maniera attiva e arrivano a dialogare direttamente con l’utente. E il canale privilegiato per farlo sono, non a caso, i luoghi che hanno fatto della “condivisione” il proprio modello di business: i social network. Il solo Facebook, la piattaforma lanciata nel 2004 da Mark Zuckerberg, ha chiuso il secondo trimestre dell’anno con oltre 9 miliardi di dollari in ricavi pubblicitari (circa 8 arrivano dal mobile) e studia servizi sempre più attenti alle esigenze delle imprese. «L'uso dei social network ha abbattuto le barriere: si passa dall'utente colpito in maniera passiva alla relazione diretta con l'azienda» spiega Nadia Olivero, professoressa al dipartimento di Psicologia della Bicocca di Milano ed esperta di comportamenti economici.

Un circolo vizioso tra quello che vogliamo (o pensiamo di volere)
La comunicazione non è solo verbale. Dietro a banner e video ci sono studi di psicologia cognitiva e neuroscienze, in genere votati a «catturare» l’occhio con gli stimoli adatti: «L'uso dello spazio sul mezzo internet può essere fortemente condizionato da stimoli visivi - dice ancora Olivero - Pertanto la tecnologia sta studiando in maniera approfondita come catturare l'occhio». Ma i riflessi psicologici non si limitano alla distrazione per un logo ben costruito o un pop-up che sbuca quando facciamo una ricerca online. La profilatura degli utenti e l’automazione delle offerte commerciali rivolte a loro, secondo Olivero, sta creando un «circolo vizioso» che riguarda la libertà di scelta dell’utente.

Cosa succede? Le aziende puntano meno sul marchio e più sulla offerta del prodotto, proponendolo in maniera continuativa all’utente. E il risultato è che la capacità di valutazione finisce per restringersi a un ventaglio sempre più ridotto di articoli e brand, come già succede in ambito cognitivo quando si effettuano ricerche sempre dallo stesso browser: «La libertà di autodefinirsi attraverso il consumo sta venendo meno - dice Olivero - proprio perché le aziende ci ripropongono quello che vogliamo, in teoria, e non siamo più in grado di valutare cosa desideriamo e cosa no».

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