PAPA E ROHINGYA/ Perché Francesco chiede perdono a dei musulmani umiliati e uccisi

- Cristiana Caricato

Papa Francesco, durante la visita in Bangladesh, ha incontrato alcuni profughi Rohingya, ha pronunciato il loro nome proibito in Myanmar e ha chiesto perdono. CRISTIANA CARICATO

papa_francesco_myanmar_messa_2_lapresse_2017 Papa Francesco (LaPresse)

DHAKA (Bangladesh) — Alla fine la parola che tutti aspettavano è arrivata. Proprio all’ultimo, quando quasi non ci speravano più. Dopo cinque giorni tra Myanmar e Bangladesh, nove discorsi, due sorvoli su Cox’s Bazar, l’incontro con due presidenti, un premier e un consigliere di Stato (anche Nobel per la Pace), Papa Francesco ha scelto di pronunciare l’impronunciabile parola davanti ad un gruppo di poveretti, incapaci quasi di esprimersi, talmente spaventati da non riuscire neanche ad alzare lo sguardo, con gli occhi gonfi di pianto e la pelle marchiata dal fuoco. Sì, Papa Francesco ha pronunciato la parola “Rohingya” davanti agli unici che meritavano di sentirla. Gli stessi Rohingya. 

E così, infischiandosene delle prudenze diplomatiche, dei consigli delle gerarchie birmane, degli altolà militari, e persino delle raccomandazioni interessate della Premio Nobel Aung San Suu Kyi, alla fine è sbottato e l’ha detta la benedetta parola diventata il tormentone delle ultime settimane. L’ha detta dopo aver stretto le mani di sedici profughi musulmani costretti ad abbandonare l’unica terra che conoscevano, l’unico dialetto imparato con il latte, l’unica casa che avessero mai avuto. Li ha guardati. Ha guardato i loro visi che tradivano un dolore infinito, le ferite ancora fresche sulle braccia, i segni lasciati dalle botte e dai fucili, l’odore di paura che avevano addosso e la povertà che sembrava cucita agli abiti incollati al corpo. Ha misurato l’orrore balbettato in racconti veloci e frammentati. Ha scoperto la vergogna e la sofferenza nelle donne che per lui hanno abbassato il velo dal viso. 

E poi ha asciugato le lacrime di Shawket Ara, troppo piccola per vedere i propri genitori massacrati, i fratelli fatti a pezzi, gli zii uccisi. Nove anni e un oceano di disperazione. Sola al mondo, in fuga in un paese dove nessuno più l’abbraccia. No. Francesco non poteva tacere. Non poteva non riconoscerli. Non poteva non dire che il nome di “Dio oggi è anche Rohingya”. Ha pronunciato quel termine “proibito” nella logica del realismo politico, perché ha voluto indicare al mondo la dignità unica e irripetibile di quegli uomini e quelle donne che hanno significato e senso davanti a Dio. Che sono figli e fratelli. Così sotto il tendone piantato nel giardino dell’arcivescovado di Dhaka, al termine dell’incontro interreligioso ed ecumenico per la pace, dopo l’immersione nel coloratissimo e luccicante mondo delle fedi bengalesi, tra monaci indù, studenti di madrasse, imam e buddisti dai piedi scalzi, ha scosso la coscienza del mondo. Non chiudiamo il cuore, non giriamoci dall’altra parte ha sussurrato. Continuiamo a stargli vicino perché siano riconosciuti i loro diritti, ha ribadito. 

Ma prima di tutto ha ricordato al mondo l’origine dell’indignazione e della passione per quel gruppetto di poveracci. Quell’immagine e somiglianza che ritorna nella tradizione giudaico-cristiana, ma anche il granello di sale con cui il Padre ha mescolato l’acqua versata nell’anima degli uomini, come raccontano certi miti orientali. Quegli uomini sgangherati, trascinati nella storia loro malgrado, cacciati come mosche fastidiose, finite ad ammassarsi su pezzi di terra già divorati, sono ad immagine e somiglianza di Dio, sono fratelli e sorelle, sono anime con granelli di sale divino. Ed ecco — ha continuato Francesco — cosa fa l’egoismo del mondo con l’immagine di Dio. La riduce a polvere da spazzare via il prima possibile. A niente che può essere schiacciato. A pezzo di carne ferita. Come Shawket Ara. Come gli oltre 600mila profughi in fuga dal Myanmar. Come i milioni di disperati che annegano nella nostra indifferenza. Ed ecco il Papa, che non ha paura di chiamare le persone con il loro nome, ha fatto l’unica vera azione rivoluzionaria. Ha chiesto perdono a chi si vergognava persino di esistere. Ha supplicato di perdonare. Ha fatto appello al cuore grande di chi ha conosciuto il buio e l’orrore, per farsi accordare il perdono di cui tutti abbiamo bisogno. E poi ha fatto l’unica cosa possibile. Ha pregato. Con il profugo musulmano affianco. Perché oggi la presenza di Dio si chiama Rohingya. E tutti lo devono sapere. 







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