SPY FINANZA/ La bomba a orologeria che a Cernobbio nessuno vede

- Mauro Bottarelli

Le parole di Trump di venerdì scorso potrebbero essere l’annuncio formale dell’inizio della crisi. Quella crisi di cui a Cernobbio non ci si accorge, dice MAURO BOTTARELLI

Trader_Borsa_pensieroso_Lapresse (LaPresse)

Non c’entra nulla con l’argomento di oggi, ma la notizia è troppo ghiotta per non darvela, ammesso che vi sia sfuggita nei vari telegiornali del weekend: a conferma di quanto vi dicevo a ridosso di Pasqua, ovvero del patetico timing con cui in questo Paese tornano a farsi sentire le minacce jihadiste a orologeria, ecco che la polizia postale e la Digos di Trieste hanno scoperto un minorenne italiano di origine algerina fortemente radicalizzato e che compiva opera di propaganda e istigazione al compimento di attentati via Internet. E in ossequio all’allarme da 11 settembre lanciato dal ministro Minniti non più tardi di dieci giorni fa, qual è stata la risposta dello Stato a questa minaccia? Scollegato da chat e canali Telegram e obbligato a un percorso di de-radicalizzazione! Come gli alcolizzati e i tossici, lo mandano in riabilitazione, magari da Don Mazzi!

Ora, un messaggio simile come può essere percepito, a vostro modo di vedere, da eventuali estremisti, lupi solitari e altre figure mitologiche nate dalla fantasia dell’intelligence di mezzo mondo, se davvero tutto l’allarme terrorismo fosse reale e non una pantomima tragica strumentale al potere, economico in primis? Tutti in Italia, tanto al massimo se ti beccano, vai in castigo senza Internet per un po’ e fai finta di de-radicalizzarti con un imam che ti segue nel percorso: accidenti che misure dissuasive, roba davvero da Grande Fratello! Non ci fosse di mezzo la tragicità di un progetto di controllo sociale pericolosissimo, ci sarebbe da ridere, quantomeno al pari della notizia giunta dal reparto resurrezione e miracoli dell’ospedale inglese di Salisbury, dove l’ex spia del Kgbe sua figlia sono fuori pericolo: caso unico al mondo di non mortalità garantita del gas nervino (e dei servizi russi, se davvero fosse credibile la narrativa di May e Johnson).

Spero che queste due perle vi servano come reminder per la prossima emergenza terrorismo nel nostro Paese, a questo punto – stante l’assenza per qualche mese di feste comandate in grande stile – identificabile con la stagione estiva dei grandi concerti in stadi e piazze. In compenso – e a conferma di quanto vi dico da sempre rispetto al fenomeno del “terrorismo islamico” -, cosa vi avevo detto rispetto alla possibilità che qualche lupo solitario facesse capolino in Germania, in caso il governo non tornasse indietro e di corsa rispetto all’apertura di credito verso il consorzio della pipeline “fiulo-russa” Nord Stream2? Giovedì scorso le prime avvisaglie si erano avute con il duro attacco avanzato dalla Bild contro l’ex ministro degli Esteri, Sigmar Gabriel, proprio per il suo atteggiamento eccessivamente filo-Cremlino e aperturista verso il progetto energetico destinato a unire Russia e Germania bypassando quel 52mo Stato degli USA meglio conosciuto come Ucraina, talmente inviso agli Usa da portare il Dipartimento di Stato a minacciare sanzioni contro le aziende europee che partecipassero al consorzio.

Venerdì, poi, la bocciatura ufficiale dell’Ue, la quale pilatescamente ha reso noto che non favorirà l’infrastruttura, la quale vedrà quindi la partecipazione dei vari Stati che lo vorranno a livello sovrano ma senza il via libera comunitario: come dire, chi lo fa, opera a suo rischio e pericolo. Ieri, guarda caso, a un furgone si è lanciato sulla folle, procurando morti e feriti ma, soprattutto, il ritorno dell’incubo dopo la strage del mercatino di Natale nel 2016 perpetrata da Amis Amri. L’attentatore? Ovviamente morto, in questo caso, suicida. Comunque sia, non in grado di parlare. Ve lo avevo detto non più tardi della scorsa settimana, ormai la situazione è talmente fuori controllo che a governare il caos sono passati direttamente i cavalieri di ventura e le anime nere, non più comprimari. Un caso? Una coincidenza, l’ennesima da quando l’Europa p finita in grande stile nel mirino del jihadismo ad orologeria con le stragi parigine prima di Charlie Hebdo e poi del Bataclan? Sicuri? Guardate cosa sta accadendo in Francia, a  livello sociale e di riforma costituzionale in atto: anche in questo caso, tutto casuale? Parentesi, a mio modo di vedere doverosa, chiusa.

Ma restiamo comunque nell’ambito del comico, quasi del farsesco ma con un retrogusto molto marcato di oscuro e inquietante: ovvero, parliamo della scoperta dell’acqua calda compiuta ieri dal Sole24Ore su impulso di quel simposio di premi Nobel a loro insaputa dal Workshop Ambrosetti tenutosi nel fine settimana a Cernobbio, versione lacustre e in grisaglia più elegante del vertice di Davos, ma che con l’assise svizzera condivide una peculiarità assoluta: ci arrivano sempre con sei mesi di ritardo, quando cioè le crisi hanno già investito mercati e nazioni come un treno.

Dopo mesi passati a fungere da grancassa della grande balla orchestrata dalle Banche centrali, ovvero il mito della ripresa sincronizzata globale, ecco che i nostri fenomeni scoprono che potrebbe esserci un piccolo problema legato a tassi e livello della crescita economica del nostro Paese in vista della fine del Qe della Bce. Insomma, un potenziale aggravio dei costi per gli interessi passivi: non sia mai che ammettano come il problema reale sia la fine del finanziamento a costo zero ed extra-bancario garantito dall’Eurotower alle aziende europee, italiane in testa (con le big, oltretutto) attraverso il programma di acquisto di obbligazioni corporate senza limitazione di rating, i nostri imprenditori sono tutti fenomeni a prescindere per certe consorterie che gravitano nell’area di Confindustria.

Nel report preparato da The European House – Ambrosetti e intitolato La fine del Quantitative Easing in Europa e impatti sull’Italia, si delineano otto scenari legati ai tassi di interessi e a quelli di crescita in cui viene contemplata l’evoluzione del nostro rapporto debito/Pil. Si passa dal più ottimistico (raggiungimento degli obiettivi di Def e Bce e disattivazione della clausola di salvaguardia) che dovrebbe portare la nostra ratio addirittura al 112,7% nel 2023 a quello peggiore (recessione nel 2019 moderata con spread) che potrebbe proiettarci addirittura in area 150%, per l’esattezza 149,4%, in uno worst case scenario molto simile a quello della crisi sovrana del 2011.

E qual è la conclusione? Primo, a preoccupare i soloni lacustri è più uno shock esterno sulla crescita che la fine dei riacquisti Bce. Secondo, consolidamento necessario della ripresa economica in atto proprio per poter ammortizzare quell’eventuale shock, passando anche da un aumento netto dell’avanzo primario. Ok, adesso spegniamo la Playstation e torniamo sulla Terra. Guardate questi due grafici, ma non fateli vedere a Cernobbio, altrimenti si spaventano: il primo ci mostra come la riduzione netta dell’impulso creditizio cinese, quello che ha tenuto in piedi il baraccone globale dopo la fine formale del Qe della Fed, abbia infine colpito anche l’eurozona, dopo aver inviato scossoni altrove. Il secondo, invece, ci mostra come ciò che vi dico da settimane, anzi mesi, si stia concretizzando: lo studio di Morgan Stanley, un po’ meno da scoperta della rotondità del globo di quello Ambrosetti, ci mostra infatti come la delirante crociata commerciale degli Usa non potesse arrivare in momento ciclico peggiore a livello economico globale. O, migliore, dipende quale sia il risultato che si vuole ottenere da un conflitto sui dazi con Pechino. Cioè, se si vuole accelerare l’arrivo di una crisi per evitare esplosione incontrollate delle bolle regalateci negli anni dall’operatività salvifica delle Banche centrali, allora si è sulla strada perfetta.

Come vedete, siamo al livello di picco che anticipò le precedenti crisi (e recessioni), quindi possiamo tranquillamente dire che a Cernobbio si è come al solito trattato argomenti che potevano avere un senso sei-otto mesi fa, quando ciò i dati macro che vedrebbe anche Mr. Magoo non avevano ancora clamorosamente sbugiardato la retorica della ripresa globale sincronizzata e, quindi, quando l’ipotesi recessiva era davvero un tail-risk pressoché impossibile nel futuro più prossimo. Oggi lo scenario globale è diverso, soffocato dal debito sia sovrano che corporate, con la Fed in fase rialzista del costo del denaro (Powell venerdì è tornato a parlare di tre, quattro ritocchi nell’anno in corso), la Bce in fase di pre-tapering e la sola Bank of Japan a menare le danze espansive, di fatto acquistando anche i ciliegi in fiori dei parchi di Tokyo.

E attenzione, perché dagli Usa sono arrivati messaggi in codice decisamente allarmanti fra mercoledì e venerdì scorsi. Prima Eamon Javers della Cnbc ha dichiarato, con la calma olimpica con cui si ordina un cappuccino al bar, che «la Casa Bianca riconosce che le azioni di Trump stanno colpendo il mercato azionario, ma questa è una faccenda di lungo termine e il presidente deve proseguire nell’azione di ottemperare alle promesse chiave della campagna elettorale». Come dire, preparatevi a uno scossone perché Trump sta combinando un disastro, ma, essendo un disastro che piace alla retorica da trogloditi economici degli americani, va bene così, perché risponde alla logica dell’America first. Poi, venerdì, è stato lo stesso Donald Trump ad ammettere candidamente che «non posso negare che ci sarà un po’ di dolore da patire (sui mercati, ndr) e quindi potremmo perdere un po’, ma in questo modo avremo una nazione più forte quando avremo finito e io sono qui per questo».

E attenzione, perché il presidente non ha scelto la Cnn o la Fox per inviare la sua candida ammissione di guai all’orizzonte in economia e finanza, ma la Wabc, una radio di New York facente capo al gruppo editoriale Cumulus Media, capace di inglobare la Citadel Broadcasting e di raggiungere così – attraverso decine di emittenti affiliate e controllate – tutta l’America, soprattutto la più profonda. Insomma, quella Main Street che ha mandato il tycoon newyorchese a Pennsylvania Avenue e che ora lo idolatra per la sua guerra contro i nemici della manifattura e dell’occupazione made in Usa.

Ora, guardate questo grafico, il quale ci mostra la crescita della capitalizzazione di mercato a livello azionario globale dall’elezione di Trump alla Casa Bianca: «Il mercato è salito del 40, forse del 42%», ha sottolineato il presidente nell’intervista radiofonica. E questo dovrebbe farci porre una domanda: quanto è disposto a sacrificare di quella crescita nella guerra commerciale contro la Cina? O, ponendo in maniera più realistica la domanda: quanto è necessario che calino i mercati e la gente si spaventi per poter riattivare a forza quattro e, questa volta sì, con sincrono globale i programmi di espansione monetaria delle Banche centrali, Fed in testa che comincerebbe con il bloccare il programma di rialzo, annunciando la cosa urbi et orbi in modo che la sentano anche su Marte?

Perché è inutile prendersi in giro e perdere tempo con le supercazzole del Workshop Ambrosetti e i suoi seminari a pagamento e a porte chiuse (chissà quali ricette segrete verranno mai prospettate in quelle sale così eleganti e austere?), la questione è una sola e risiede in questo grafico: senza gli acquisti onnivori della Banche centrali, di fatto hedge funds mascherati, la ripresa o presunta tale la si sarebbe vista con il binocolo.

In subordine, al netto dei bilanci gonfi e dei miliardi stampati dal nulla, il grado di leverage globale – sia sovrano che corporate – è completamente fuori controllo, tanto che venerdì il grafico relativo all’esposizione debitoria delle aziende Usa sia junk che investment grade era l’argomento del giorno della prima pagina dell’inserto finanziario del Financial Times, gente che ha l’occhio un filino più lungo di Mario Monti e accoliti lacustri (o, quantomeno, che sa quando è ora di smettere di nascondere la realtà, quantomeno in toto). Senza Qe, non solo si sgonfia la presunta ripresa (e il grafico precedente di Morgan Stanley parla chiaro rispetto sul punto di ciclo economico in cui siamo già attualmente), ma anche il mercato azionario, quello che Trump prevede in calo come conseguenza della guerra benedetta e di lungo periodo contro i manipolatori cinesi, farà morti e feriti, visto che si potrà dire addio ai buybacks allegri garantiti dai tassi a zero con cui le aziende emettono debito con il badile, certe di avere un compratore fuori mercato di prima e ultima istanza: ovvero, le Banche centrali.

È tutto qui, ci si è spinti troppo oltre, l’esperimento di espansione monetaria faustiana è – come si poteva immaginare – andato fuori controllo, poiché basato sul principio perverso della perpetuazione del debito (e del deficit) come motore della crescita. Anzi, dell’auto-perpetuazione, visto che ormai il mercato altro non è che un casinò autoreferenziale in cui gli unici player a fare trading (e prezzo) sono gli istituti centrali, Leviatani contro cui nessuno è così stupido da scatenare una guerra. Almeno fino a oggi, perché le parole di Donald Trump di venerdì scorso potrebbero essere il vero spartiacque del ciclo economico. Ovvero, l’annuncio formale dell’inizio della crisi, più o meno mascherata e controllata nei suoi esordi da qui al meeting di Jackson Hole a fine agosto. Perché è lì, facilmente, che si giocherà la partita vera, quella che ci dirà se sarà Qe perenne o quasi (fino alla degenerazione mortale con cui stanno flirtando alcuni circoli accademici keynesiani, discutendo di Abenomics, ovvero l’helicopter money) oppure se si tenterà davvero la demolizione controllata, una nuova versione della distruzione creativa schumpeteriana nella speranza che il delirante e criminale sistema neoliberale del mercato distorto a uso e consumo delle élites possa sopravvivere ancora una volta a sé stesso e ai suo crimini economici.

A Cernobbio non hanno capito (o fingono ancora di non capire, seguendo la regola aurea del banchiere che deve mentire, quando la situazione è davvero grave) che qui non si tratta di pochi punti di aumento dei tassi o di zero virgola sugli interessi passivi: qui siamo seduti su una bomba a orologeria che non ha precedenti. Né il 1929, né il 2008. Non sarà certamente un po’di export o di avanzo primario in più a salvarci, come Paese e come economia. Perché il mondo è finanziariamente interconnesso e le crisi sono, per questo, globali. E se già tremi perché la Bce smette di comprare bond di Telecom o Eni, cosa accadrà se davvero Wall Street dovesse sgonfiarsi per garantire nuovo Qe e un contemporaneo sviluppo forza quattro del warfare (in Siria, Iraq, Afghanistan, a Gaza, nel Baltico in chiave anti-russa o in Corea del Nord, poco cambia) per uscire dalla recessione globale?

Meglio non cercare una risposta, potrebbe ghiacciarvi il sangue nelle vene. Perché il problema è strutturalmente prima sociale, politico e culturale che meramente economico-finanziario. Ne parleremo domani.





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