TIM/ Un crollo in borsa che nasconde il peccato originale dei “capitani coraggiosi”

- Sergio Luciano

Ieri il titolo è crollato ai livelli di cinque anni fa, a 0,52 euro. E tutti a chiedersi il perché. Ma la vera domanda è "perché no"?. Tutta colpa dell'Opa del '99. SERGIO LUCIANO

Telecom_Tim_Insegna_Lapresse Tim Italia (LaPresse)

Di fronte a fenomeni eclatanti che di quando in quando si verificano in Borsa, tutti lì a chiedersi il perché. Ma la domanda giusta sarebbe: “perché no?”. È il caso del titolo Telecom Italia, crollato ieri al listino di Piazza Affari ai livelli di cinque anni fa, 0,52 euro per azione, pari a una capitalizzazione totale di appena 10,69 miliardi. Come dire che tutta Tim vale meno della metà dei suoi debiti.

Subito gli astrologi hanno iniziato a chiedersi il perché. E le ragioni specifiche, tattiche, si trovano facilmente. La causa diretta e occasionale è stata sicuramente il combinato disposto di due notizie di ieri mattina.

Innanzitutto, un report di Exane-Bnp Paribas, la società di analisi finanziarie del colosso creditizio francese, che ha ridotto il suo giudizio sul titolo Tim da “neutral” a “underperform”, pronosticando dunque che si comporterà peggio di quanto farà la media del listino, fino a toccare un prezzo-obiettivo di 0,38 euro. Questo avverrebbe, secondo i francesi, per una serie di ragioni, tutte plausibili e semmai incomplete: innanzitutto per la concorrenza di Iliad, gruppo (a sua volta francese) entrato in Italia da pochi mesi per decreto europeo a ricostituire quel quarto gestore che la fusione tra Wind e H3g ha goffamente cercato di eliminare nella vana speranza di poter far salire così i prezzi: ed ecco la seconda causa scatenante del ribasso subito ieri da Tim, che Iliad ha fatto sapere di aver raggiunto prima del tempo la soglia del milione e mezzo di clienti, dimostrando così che il mercato italiano reagisce bene all’offerta.

Ma non basta: altre ragioni sostanziali spiegano il crollo. La stessa Tim indicava nell’ultima relazione finanziaria la minaccia rappresentata dalla nuova concorrenza di Open Fiber, l’azienda di Stato (50% Enel e 50% Cassa depositi e prestiti) che sta realizzando la rete a banda larghissima che sarà molto più efficiente di quella di Telecom, che negli anni le varie proprietà succedutesi alla guida dell’azienda ha sempre voluto tenersi a tutti i costi senza avere i soldi per farla evolvere. Sullo sfondo, le difficoltà di governance dovute al fatto che il maggior singolo azionista di Tim, cioè la Vivendi di Vincent Bolloré è stato scalzato dalla stanza dei bottoni dal fondo attivista Elliott, il quale ha insediato un ottimo consiglio d’amministrazione di professionisti che prevalentemente si occupano di tutt’altro, e hanno lasciato al timone un manager di ragguardevole ma non eccezionale fama, Amos Genish, che era stato scelto dai francesi. Insomma, un pasticcio, fonte potenziale di inefficienze.

Fin qui le ragioni tecniche. Ma quel “perché no?” cui si alludeva all’inizio nasce da un briciolo di memoria storica sulle dinamiche fondamentali del mercato della telefonia mobile, che sono probabilmente arrivate a una svolta storica. Un esempio per spiegarsi.

Una società sana come la Sirti, che costruisce reti telematiche intelligenti – cioè quelle necessarie a far funzionare i telefoni, sia fissi che mobili – ha un ebitda-obiettivo di poco superiore al 7%. Significa che se da 100 euro di fatturato ottiene un margine industriale di 7,5 euro, è contenta. I due colossi mondiali del lusso – Lvmh e Kering – hanno un ebitda 2018 rispettivamente del 23 e del 19%. Invece, tuttora, e da trent’anni, gli operatori telefonici hanno ebitda superiori al 40%. La domandona è: perché? Risposta da primi delle classe un po’ scimuniti: “Per poter investire tanto!”. Bugia: investono a stento il necessario per star dietro all’evoluzione tecnologica, per il resto utilizzano quei pingui margini per ripagarsi i debiti enormi fatti dalle proprietà per comprarseli, a suo tempo, senza spendere una lira di mezzi propri e utilizzando interamente la capacità di autoindebitarsi delle aziende stesse: e li utilizzano per distribuire ricchi dividendi. Questo, almeno, è il caso di Tim. Un debito enorme, vorace, che assorbe cassa.

Peccato originale politicamente addebitabile per intero al governo D’Alema che lo permise e alla cordata dei “capitani coraggiosi” che lo commise con la madre di tutte le Opa nel ’99. Ebbene, quel peccato non è mai stato espiato. E ad esso si aggiungono i fattori contingenti, a cominciare da quello di Iliad che è entrata sul mercato con tutte le più innovative tecnologie e i processi più recenti, che le consentono di abbattere i costi e di offrire prezzi stracciati.

E poi, ancora: l’attuale situazione della proprietà Tim, surreale, con i francesi che avrebbero i numeri per comandare e non possono farlo, non avendo strategie chiare nemmeno in casa loro e nel loro core-business che è la pay-tv di Canal Plus, afflitta da tempo da un cattivo andamento; e dall’altra parte, gli americani di Elliott, che hanno fatto il loro bingo e, come di regola, sono già stufi della loro avventuretta sentimentale con Tim.

Alla luce di tutto ciò, “perché non” dovrebbe scendere, il titolo Tim? Ma attenzione! Che quasi 30 milioni di clienti, con quel marchio, quell’avviamento e quel fatturato – e anche quelle competenze interne, perché gente brava in azienda ce n’è – possano valere così poco, è la miglior premessa perché si compia un’ulteriore cambio di scena. A questi prezzi la società fa nuovamente gola. E soprattutto l’idea – ormai definibile quasi “l’ultima speranza” – di realizzare ancora qualcosa dalla rete, vendendola a Open Fiber o alla Cassa Depositi e Prestiti, potrebbe non trovare più ostacoli.

Non a caso, secondo Bloomberg, il “consensus” degli analisti sul futuro del titolo Tim non segue la direzione di Exane, ma vede i “Buy” (comprare) prevalere per il 58% sui “Sell” (vendere) e un potenziale upside (margine di miglioramento) del 66,7% rispetto ai valori attuali.





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