LEOPOLDA PD/ Dietro le promesse di Renzi il fiasco di un partito mai nato

- Gianluigi Da Rold

La Leopolda n. 8 del giovane ma già invecchiato guru del Pd, Matteo Renzi, si chiude con un grande vuoto, le solite promesse e i conti sospesi con la storia. GIANLUIGI DA ROLD

matteo_renzi_milano_fiera_lapresse_2017 Matteo Renzi (LaPresse)

Cambia tutto secondo alcuni resoconti giornalistici di prima battuta: l’ottava Leopolda del giovane, ma già invecchiato, “guru” del Partito democratico, Matteo Renzi, sarebbe stata alla fine un successo per i tanti giovani che sono accorsi alle vecchia stazione fiorentina e per le storie che sono state raccontate in prima persona. 

Peccato che i giornali e in generale i media, in questi ultimi giorni, non ne avessero quasi parlato e ancora più peccato che si ripetesse in Italia il gioco della famosa scelta storica nazionale: l’iscrizione alla “scuola dell’oblio”. La defezione infatti di tanti nomi noti, dei protagonisti che avevano animato le vecchie Leopolde, era quasi irritante, ma soprattutto ripetitiva, giusto per definire l’ennesima fuga dal “carro del perdente” predestinato, secondo quanto dicono osservatori e sondaggisti.

Ma il tempo, prima delle elezioni di fine legislatura, è ancora lungo. Ci sono mesi che possono riservare sorprese impensabili o animare speranze incredibili. E quindi Matteo Renzi chiude con un discorso d’attacco, dove rivendica tutto quello che ha fatto e rilancia sulla sua linea che si basa, per nostra opinione, sull’evanescenza dei programmi. 

Sembra un brutto rosario quello che ripete Renzi alla fine dell’ottava Leopolda. Gli 80 euro? Bisogna allargare la base di quelli che ne beneficiano, quelli ad esempio che hanno famiglie con figli. Il referendum istituzionale perduto in modo clamoroso, giusto un anno fa? Lui lo rifarebbe domani e ne rivendica la carica innovativa che purtroppo non è arrivata. I litigi a sinistra? Non sono di certo colpa sua e comunque lui è persona “aperta”, che non considera nemico nessuno. Chi vincerà le elezioni? Ma c’è da dubitarne? Berlusconi e Di Maio devono rassegnarsi a lottare per il secondo e terzo posto. La politica di un’Europa che sembra sottosopra e in profonda crisi, persino la solidissima Germania? Calma, dice il leader della Leopolda, c’è Emmanuel Macron, il francese dell’Ena che ha rotto tutti gli argini politici e con il quale si può modificare tutta la politica europea.

Che dire di fronte a tanta sicurezza, a tanta fiducia, a tanta fede? Forse Renzi si è consultato con il mago Otelma e tutti gli altri osservatori politici sono degli emeriti deficienti. Fatto che non si può e non si deve escludere. Ma nella sostanza, dalla politica dell’allargamento dei “bonus” (che tanto bene non fanno al debito pubblico) fino alla crisi storica di una sinistra e di un centrosinistra che è arrivato alla conclusione della sua corsa, Renzi non ha ripensamenti. 

Anche i consensi che Macron ha perduto in questi mesi, oppure non ha ottenuto, e la scadenza francese con la riforma del lavoro, non fanno vacillare le certezze di Renzi in politica estera, così come la situazione economica italiana, con il primato della disoccupazione giovanile e un debito pubblico che la cura “Monti&Fornero” non ha migliorato, anzi. Con in più, come conseguenza sociale generale, un assenteismo elettorale inquietante e una serie di sconfitte del Pd in una serie di consultazioni elettorali di ogni tipo. 

Renzi comunque ha fiducia e raduna i giovani alla Leopolda; parla, come si dice oggi, ai “millennials”, anche se siamo un Paese di vecchi. Ad alcuni ricorda gli ultimi raduni dell’Ugi e dell’Unuri, la vecchia goliardia politica italiana, che, prima di crollare nel putiferio del ’68, cercava, disperatamente, di fare convegni inutili con le matricole universitarie.

Ma qualsiasi paragone, di fronte a tanta sicumera renziana, sembra sprecata. La realtà è che la storia di questa repubblica non si può aggiustare con “slanci” legati a un passato problematico e difficoltoso. E Renzi paga il suo rinnovamento, che è stato troppo approssimativo e troppo pasticciato. Il Pd è ancora adesso l’insieme di due culture nostalgiche e fallimentari, che sono in perenne contraddizione tra loro, e sono politicamente sorpassate rispetto anche alla crisi della democrazia parlamentare che esiste in tutto il mondo occidentale.

Sarà un caso, ma se siamo il fanalino di coda del rimbalzo economico, siamo anche il fanalino di coda nella rivisitazione di assetti istituzionali nati nel 1946 dalla convenienza di una congiuntura politica, quella successiva alla fine della guerra, che doveva essere rivista, rivisitata, riformata. Il 1992 doveva essere la svolta di questa repubblica, dopo la fine della guerra fredda. Ci hanno pensato “altri” a fare la svolta politica, istituzionale ed economica.

Alla fine, nessuno è stato in grado di interpretare bene questa svolta e, così come siamo arrivati alla crisi finanziaria del 2007 in difficoltà sui conti pubblici e il funzionamento amministrativo dello Stato, siamo arrivati in difficoltà anche rispetto ai mutamenti istituzionali che probabilmente la democrazia parlamentare doveva e dovrà affrontare di fronte a mutamenti epocali delle nuove società.

Con la spigliatezza degli irresponsabili, firmando pure qualche derivato di troppo, siamo entrati nell’Unione europea con il primo gruppo subendo conseguenze incredibili per perdita di reddito, di Pil, di aumento del debito pubblico, di crollo di competitività, di progressiva deindustrializzazione e  di marginalizzazione geopolitica.

Naturalmente, seguendo i consigli della “scuola dell’oblio”, c’è chi ha messo insieme i resti del potscomunismo, fallito, con i resti del cattolicesimo di sinistra che faceva la guerra, fin dagli anni Cinquanta, a uomini come Alcide De Gasperi. A ben vedere, ha ragione Massimo Cacciari quando critica aspramente la nascita di un partito mai nato come il Pd.

Se nel dopoguerra l’Italia doveva metabolizzare il postfascismo (a cui aveva aderito in massa), ora deve metabolizzare anche il dossettismo. E poi soprattutto il comunismo togliattiano, la farsa ipocrita della “democrazia progressiva”, che faceva comodo all’Urss; e poi la versione in fase “disperata” per sbocchi politici realistici del berlinguerismo, che si affidava alla “questione morale”. Poi sono arrivate le pantomime dell’occhettismo, del dalemismo e del veltronismo. Tra “uscite a sinistra del Pci” e incredibili nozze con il neoliberismo. 

Le speranze che negli anni Sessanta avevano suscitato i riformisti, anche all’interno del mondo comunista, come Giorgio Amendola in Italia e Nikita Kruscev in Urss, per saldare un blocco con il vecchio riformismo socialista erano state bollate, allora, da questi perenni maestri nostrani del nulla come il frutto di “pasticcioni politici”.

La storia alla fine presenta sempre il conto e ora questo mondo paga il dazio. In fondo Matteo Renzi non è neppure il maggior colpevole di questa situazione. E’ solamente uno che non capisce e che non sa fare politica, anche se si addossa la responsabilità di chi gli ha ceduto il bastoncino della staffetta della sconfitta storica. Che cosa ricorda questa Leopolda, con nuove promesse e vecchie passioni andate in fumo? Non c’è nulla da stupirsi. In fondo, in Italia, negli anni Cinquanta, c’era anche il “partito della bistecca”.





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