IL LODO SCALFARI-MINNITI/ Renzi in Europa, governo del Presidente e ri-voto nel 2019

- Nicola Berti

Intervistando il ministro dell'Interno, il fondatore di "Repubblica" marca il suo primato sul quotidiano e disegna un dopo-voto diverso da "Renzusconi". NICOLA BERTI

minniti_renzi_1_lapresse_2017 Marco Minniti, ministro dell'Interno, con il segretario del Pd Matteo Renzi (LaPresse)

L’intervista data dal ministro dell’Interno Marco Minniti a Eugenio Scalfari non è di quelle che durano lo spazio di un mattino. Ha lasciato molti spunti forti, intrecciati.

Il Fondatore di Repubblica, 94 anni, un mattino di febbraio ha infilato il cappotto, si è messo in tasca taccuino e stilografica ed è andato di buon passo fino al Viminale: “in giro di nera” direbbe con nostalgia un vecchio cronista in provincia. Scalfari ha interrogato Minniti anzitutto sulla bruciante attualità di Macerata, su come ragiona e decide in queste ore il “ministro di polizia”, fra cadaveri e spacciatori, pistoleros e immigrati, cortei elettorali di ogni colore. Poi ha sollecitato Minniti sulla volata verso il 4 marzo, sulle prospettive del dopo-voto. Ha posto tutte le domande, ha ottenuto tutte le risposte. Ci sono poche righe non di contenuto in un’intera pagina tabloid, al cui confronto impallidirebbero anche un centinaio di tweet assortiti. In breve: da parte di un “venerato maestro” che da anni sembrava relegato a lunghi “sermoni” domenicali è arrivata una formidabile lezione professionale a giornalisti old e new, a tutti. A qualcuno in particolare?

Il primo destinatario non è sembrato un giornalista, ma quello che negli ultimi trent’anni anni è stato l’editore di Scalfari: Carlo De Benedetti. “Editore” ma non “fondatore”, ha puntigliosamente preteso Scalfari durante i duri botta e risposta delle ultime settimane con De Benedetti sul momento politico del Paese e sulla conduzione di Repubblica. Ora il Fondatore rivendica il quotidiano come suo rispetto a De Benedetti: ormai ex editore (presidente onorario di Gedi), dopo aver delegato al figlio Rodolfo il ruolo di azionista di controllo, all’altro figlio Marco la presidenza dell’editoriale e all’amministratore delegato Monica Mondardini la guida della gestione. E la direzione di Mario Calabresi? Perché, anzitutto, Repubblica ieri non ha aperto la prima pagina sulla formidabile intervista di Scalfari?

La parentesi di Tommaso Cerno – giunto in autunno come condirettore e velocemente trasbordato nelle liste del Pd come candidato senatore – è stata evidentemente problematica. E’ coincisa con un restyling di Repubblica che, nell’immediato, non sembra dare i risultati sperati. E’ arrivato – Cerno – anche carico di attese riguardo un ribilanciamento della linea del quotidiano, ritenuta (certamente da De Benedetti) troppo schiacciata sul Pd di Matteo Renzi. Un ruolo di correzione che, nelle ultime settimane, è parso assumersi soprattutto Ezio Mauro: successore di Scalfari e predecessore di Calabresi.

Non più tardi di qualche giorno fa è stato un duro editoriale di Mauro a richiamare il Pd renziano a “dire e fare qualcosa di sinistra” contro quello che al direttore emerito è sembrato il dato politico dominante del caso Macerata: il dilagare del fascio-leghismo, di una minaccia “nera” sull’Italia alla vigilia del voto. Raccontano che Renzi abbia duramente contestato a Mauro la critica a un Pd apparentemente debole e condiscendente verso l’estremismo di destra per ragioni di opportunità elettorale.

Per Mauro, evidentemente, Renzi sbaglia a inseguire frange di voto moderato: farebbe meglio a ridare colore rosso al Pd riconquistando spazi “a sinistra”, dove stanno gli scissionisti di LeU e soprattutto la massa degli scontenti grillini. Una posizione non sovrapponibile a quella di Scalfari: che pure considera M5s una sciagura per il Paese, ma in alternativa – ha detto due mesi fa – si turerebbe il naso davanti a Berlusconi e non si attarderebbe a rimpiangere Bersani, D’Alema o lo stesso Pisapia.

È’ a questo punto che l’intervista di Scalfari a Minniti accentua – intenzionalmente – il “caso Repubblica” come esemplare di un “caso Pd” o addirittura di un “caso Italia”: una tripla migrazione da una stagione percepita da tutti come conclusa – la Seconda Repubblica – verso una terra promessa di cui ancora non s’intravvedono i confini. O meglio: Minniti – nella conversazione con Scalfari – vede, propone, sponsorizza un percorso. Lo fa con un tono che sembra mescolare duro realismo togliattiano (la culla di Minniti è stato il Pci) e sottile spietatezza andreottiana (oggi Minniti è il ministro dell’Interno di un governo di centro-sinistra post-comunista).

In breve (e non è affatto facile) il “lodo Scalfari-Minniti” disegna questo scenario.

– Renzi rinuncia a candidarsi come premier e rimane leader del Pd (in concreto: Renzi lo annuncia prima del 4 marzo, più facilmente appena dopo un non imprevedibile insuccesso dem).

– Renzi indirizza il suo impegno politico “in Europa”: a cominciare dalle elezioni in programma fra un anno e nel perimetro di un cantiere di riforma della Ue molto mutato dopo l’indebolimento di Angela Merkel e il rafforzamento di Emmanuel Macron (Renzi presidente della Commissione Ue al posto di Jean Claude Junker? O anche “presidente dell’Europa” al posto del polacco Donald Tusk: comunque in campo nella partita champions, mentre il mandato di Mario Draghi alla Bce si avvicina a conclusione).

– In questa fase Renzi è spinto a ri-liberalizzare il Pd dal “cerchio magico”.

– Dopo il 4 marzo il governo Gentiloni resta in carica “per l’ordinaria amministrazione perché questa è l’intenzione del Presidente della Repubblica”; ma questo potrà durare “sei, otto mesi un anno, poi bisognerà indire nuove elezioni”.

– In alternativa Gentiloni può diventare premier “vero” di un nuovo governo, ma in questo caso “avrà dei concorrenti, ci può essere benissimo anche Renzi, anche se penso che non lo farà”. In filigrana vi si vede il “governo del Presidente” di cui ha parlato poco tempo fa Massimo D’Alema, di cui Minniti è stato braccio destro a Palazzo Chigi fra il 1998 e il 2000. Un governo sostenuto in Parlamento da quale maggioranza?

– Né con il centrodestra, né con M5s. “Renzi non si alleerà mai con Berlusconi”, prevede (suggerisce, avverte) Minniti, convinto invece che il Cavaliere “avrà verso il Pd un atteggiamento neutrale” (in controluce: sarà più attento ai suoi interessi imprenditoriali e finanziari che al futuro politico del centrodestra). I grillini invece – fra tentativi di “alleanze sottobanco”, “lotte interne a Di Maio” e scoperta di “mascalzoni” – “non faranno nessuna alleanza”. E quindi sono destinati a “perdere terreno se la politica del Pd aumenterà l’efficienza, gli ideali e la raccolta di una nuova grande sinistra”. Non il 4 marzo, naturalmente, ma alle elezioni successive.

Chissà se dopo il 4 marzo sarà Minniti a ricevere l’incarico di formare un nuovo governo, dopo una resa dei conti più o meno pilotata nel Pd.

Chissà se LeU lo appoggerà dall’esterno (il ministro dell’Economia resterebbe l’antico dalemiano Pier Carlo Padoan) e se Forza Italia (magari dopo una scissione nella Lega) assicurerà una qualche forma di “non sfiducia”. 

Chissà se nei prossimi sei o dodici mesi Vivendi, Tim e Mediaset diventeranno un colosso di media e Ict in Europa, dopo lo scorporo della rete voluto dal governo (il dossier è in mano al ministro Carlo Calenda).

Chissà quale legge elettorale sostituirà il Rosatellum.

Chissà se domenica 26 maggio 2019 (al momento la data indicativa per il rinnovo dell’europarlamento) in Italia sarà election-day con un nuovo voto politico.

Chissà se e come – nel frattempo – cambieranno le cose a Repubblica.





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