Claudio Lolli. I sogni degli anni ’70, dopo 40 anni
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Claudio Lolli. I sogni degli anni ’70, dopo 40 anni

Claudio Lolli. I sogni degli anni ’70, dopo 40 anni

di Corrado Truffi.

Alla notizia della sua morte, un’ascoltatrice di Prima Pagina a Radio Tre ha voluto ricordare brevemente Claudio Lolli, e nel farlo ha lamentato come la nostra generazione – la sua, quella di Claudio Lolli e la mia – ha espresso negli anni settanta speranze e volontà di migliorare il mondo in un modo come poi non è stato mai più fatto. Speranze, diceva, completamente deluse da un mondo che le sembra, oggi, molto peggiore e molto privo di futuro.

Nel 1976, giovane militante del Partito Comunista, ho contribuito a organizzare la festa de L’Unità dell’Alberone, nella Villa Lazzaroni a Roma (allora, erano appunto altri tempi, si facevano decine di feste de l’Unità di quartiere). Sonorizzavo la festa con musiche della West Coast, Paul Kanter e Grace Slick, i Jefferson Airplane, David Crosby, e ogni tanto azzardavo un po’ di jazz. Avemmo l’opportunità di invitare Claudio Lolli, che io come molti ragazzi di allora seguivo per la sua vena malinconica e al tempo stesso ribelle verso la “vecchia piccola borghesia”, e che ci stupì con un concerto nel quale presentò, forse prima dell’uscita del disco, tutto “Zingari felici”. Una musica molto più movimentata delle tristi ballate cui ci aveva abituato, il supporto del sax e, soprattutto, testi che alludevano anche, sia pur in modo problematico, alla felicità delle vittorie elettorali della sinistra di quegli anni. Appunto, la speranza.

Solo qualche anno dopo, credo fosse l’estate del 1978, ebbi occasione di riascoltare Claudio Lolli in una festa de l’Unità nazionale, a Modena. “Disoccupate le strade dai sogni” esprimeva tutta la distanza che il movimento del ’77 metteva fra sé e il PCI e io, come sempre fedele alla linea del partito, non riuscivo più ad apprezzare. Ma, per chi mi conosce, sono sempre stato un revisionista (come veniva chiamato nelle migliori delle ipotesi il PCI di allora dall’estrema sinistra) o un riformista (come si direbbe oggi) piuttosto sui generis, e non a caso ho percorso tutto il movimento del ‘77 da dentro e, al tempo stesso, da fuori, assieme ad amici ed amori molto più “rivoluzionari” di me. Perché il sentimento, quello lo capivo, anche se la ragion politica mi diceva che era un sentimento inutile o velleitario. O perfino dannoso.

Quel sentimento lo ha espresso sempre perfettamente Claudio Lolli, come lo esprimono le foto di Tano D’Amico, o un film disturbante e incredibile come Anna di Grifi. Non eravamo affatto felici, in genere, se non altro perché ci facevamo mille domande ed elucubrazioni mentali (chi ha voglia, recuperi su Rai Storia qualche documentario di quegli anni, ci sono testimonianze bellissime e illuminanti per spiegare “come eravamo”, o almeno dia un’occhiata alle foto di questo festival dei giovani comunisti a Ravenna sempre nel 1976…). Ma eravamo profondamente convinti di poter esserlo o diventarlo.

Ora, resterò sempre affezionato e grato per le canzoni e i sentimenti che ci ha regalato Claudio Lolli. Certi versi, come quelli di Anna di Francia, sono dentro di me per motivi molto molto personali, altri per la loro forza come nel caso di Angoscia metropolitana, o perché mi divertii a spiegarli a qualcuno meno sveglio di me, come per Quello lì (Compagno Gramsci). Oltre a tutto ora, perfino riascoltando “Disoccupate le strade dai sogni” ne riscopro, retrospettivamente, il grande valore poetico: un’invettiva contro un nemico politico totalmente sbagliato (la socialdemocrazia), intrisa di intelligenza, poesia, amara dolcezza e – anche – musica di qualità. E tuttavia, ho il sospetto che l’atteggiamento nostalgico dell’ascoltatrice di Radio Tre abbia molto di sbagliato e sia dovuto, appunto, all’illusione ottica che prende chi ha vissuto direttamente quegli anni: pura, genuina, per molti versi sanissima nostalgia. Non spassionata analisi della realtà dei fatti e dello stato presente delle cose.

Provo a spiegarmi su un diverso piano di ragionamento.

Cosa volevamo? Lo so che semplifico in modo drastico, ma direi che volevamo due cose soprattutto: liberarci dai nostri padri, ossia dalla cultura tradizionale e repressiva della vecchia Italia, e avere più giustizia sociale ed uguaglianza. La liberazione dai padri era ricerca di felicità e libertà di sentimenti. La lotta per la giustizia sociale era lotta per lo sviluppo e la redistribuzione, ossia per il progresso.

A distanza di oltre quarant’anni, possiamo dire di esserci liberati dei lacci della repressione, e che la ricchezza del paese, con tutti i limiti che sappiamo, è aumentata e si è anche un po’ distribuita. Sulla libertà di costumi, non credo serva approfondire. Sulla ricchezza, visto che viviamo l’epoca del rancore, serve invece dire qualcosa di più. Potrei citare i numerosi studi sulla riduzione complessiva delle povertà nel mondo, o semplicemente notare che il mondo di oggi sfama oltre sette miliardi di persone, è quello di ieri non sarebbe stato in grado di farlo. Per non dire della durata della vita e della riduzione della mortalità infantile. Ma conosco le obiezioni, e quindi preferisco servirmi di due esempi piccoli e impressionistici.

Per sonorizzare quella vecchia festa, dovetti raggranellare i pochi LP che avevo e di cui potevo permettermi l’acquisto, o le faticose registrazioni su musicassette fatte grazie al prestito di qualche amico. Oggi mio figlio può ascoltare senza fatica e a basso prezzo (non sto parlando di pirateria) praticamente tutta la musica del mondo e, infatti, mi ha fatto conoscere e scoprire – ex post- musica dei miei mitici anni settanta che io non avevo avuto modo di conoscere, per pura e semplice mancanza di mezzi.

Quanta attenzione avevamo quarant’anni fa per l’alimentazione e la sua qualità? Se oggi siamo attorniati non solo dagli chef stellati, ma soprattutto da un’attenzione spasmodica al modo di mangiare, da una scelta infinita di prodotti bio o specializzati per le innumerevoli intolleranze alimentari (e questo vale anche per gli animali, avete mai visitato uno dei numerosi supermercati per cani e gatti che riempiono le nostre città?) è anche perché la produttività agricola (inclusa perfino quella cosiddetta biologica) è ben maggiore è meglio controllata in termini di qualità di un tempo.

Ecco, sono solo due esempi che possono essere interpretati, a nostra scelta, come evidenza del fatto che le nostre sono società del superfluo, oppure che grazie al famoso progresso oggi possiamo fruire a prezzi bassissimi di un’offerta culturale e di una qualità concreta della vita semplicemente incomparabile non solo con quella dei nostri nonni, ma anche con quella di noi stessi cinquanta/sessantenni quando eravamo bambini o adolescenti.

Solo che non c’è ne rendiamo conto, non riusciamo a comparare e a dare effettivo valore al livello di vita attuale rispetto al passato. Del resto, in qualche senso, perché dovremmo farlo? Le cose, i beni, gli oggetti e i servizi che oggi sono considerati indispensabili e minimi per una vita dignitosa sono infinitamente di più di quelli di cui ci accontentavamo da giovani o che erano considerati sufficienti qualche generazione fa. E allora si generano due fenomeni, in qualche modo convergenti.

Noi che sognavamo (più o meno) la rivoluzione vediamo il freddo del mondo attuale (“Il grande freddo” dell’ultimo disco di Claudio Lolli), la sua confusione e la mancanza di movimenti collettivi, la sua frammentazione, e ci prende la nostalgia pensando che i nostri obiettivi (liberazione e progresso) non siano stati raggiunti. Eppure come ho provato a mostrare prima, liberazione e progresso ne abbiamo avuti, e anche in quantità ma, evidentemente, l’astuzia della storia ce li ha dati in un modo molto diverso da quello che immaginavamo.

I più giovani, ma anche gli anziani come noi ma che non hanno sognato rivoluzioni, sono preda del rancore e dalla paura – anche abilmente alimentato dagli efficaci imprenditori della paura, ma per il mio discorso ora non è rilevante – perché da un lato si vedono insidiati da chi arriva da fuori a chiedere la stessa liberazione e lo stesso progresso, e dall’altro vedono l’asticella della “buona vita” alzarsi rapidamente, in una corsa infinita.

C’è un’altra questione importante che riguarda la nostalgia di molti reduci del mitico decennio 1968-1977. Se sono nostalgici (e, ammetto, nostalgico un poco lo sono anch’io), è perché considerano la loro (la nostra) sconfitta come qualcosa di inevitabile, che non è dipeso più di tanto da noi e dai nostri eventuali errori, ma piuttosto dalla forza preponderante del nemico. Se non ci si sentisse in qualche modo assolti, non si potrebbe essere così nostalgici. Claudio Lolli già nel 1977, proprio in “Disoccupate le strade dai sogni”, aveva preso posizione nettamente dalla parte sbagliata e velleitaria di quel movimento, scegliendo il nemico sbagliato (la socialdemocrazia ossessivamente attaccata in molte canzoni del disco – ah, davvero la sinistra non impara niente dalla storia, il nemico è sempre e solo chi ti è più vicino e c’è sempre qualcuno più a sinistra di te), eppure era già consapevole, come spesso lo sanno essere i veri poeti, che era un nemico sbagliato e che, comunque, la purezza rivoluzionaria esiste solo, forse, nelle canzoni: il nemico marcia alla tua testa, ed è dietro di te.

 

Claudio Lolli è morto il 17 agosto 2018. A un mese di distanza, mi è piaciuto ricordarlo a modo mio.

iMille.org – Direttore Raoul Minetti
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