di ANTONELLA SOCCIO
“Siamo stati offesi nella dignità di uomini, mariti e padri”. Quattro ospiti su cinque della Casa Monsignor Farina, tutti padri separati, Ciro Lioce, Matteo Gaudiano, Daniele Petrozzi e Pasquale Ciampoli, hanno contattato l’Immediato per chiedere il diritto di replica, dopo l’articolo con le ragioni della nuova gestione Caritas, in cui tra le righe si evidenziava il sentimento sospettoso di molti volontari Caritas sul loro reale stato di bisogno.
Siamo stati accolti di domenica a mezzodì nella zona living della casa, attorno ad un tavolo. “Chi insinua che noi ci siamo piazzati qui per non pagare gli alimenti o per sfruttare la Caritas, infanga la nostra dignità”, osserva Ciro. Il dramma della separazione li ha pesantemente penalizzati come papà, creando in loro isolamento, allontanamento dai figli e li ha ridotti in semi povertà. Potrebbero essere percepiti come genitori di serie B.
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Il 31 dicembre 2017 scade il progetto reso possibile grazie ai fondi CEI 8×1000 e ultimato grazie al contributo della Banca Popolare di Milano. Il direttore don Rocco Scotellaro, succeduto in luglio a don Francesco Catalano, li ha avvisati a settembre della chiusura della casa, sollecitandoli a trovare altre sistemazioni. Ma dai loro racconti emerge chiaramente che non sarà semplice trovare un altro posto dove vivere. Non sarà facile non far decadere la motivazione al successo, la spinta e l’interesse nel proseguire e nello svolgere bene il proprio ruolo genitoriale. Ecco le loro storie, così come loro stessi le hanno rappresentate e consegnate.
Ciro
“Pagavo 200 euro al mese una stanza ammobiliata, don Francesco mi ha dato l’opportunità di aderire ad un percorso, il recontre, di mediazione familiare per tentare di ritrovarci. Il percorso nasce con lo scopo di riunire la famiglia, che oggi è divisa. Stiamo facendo questo cammino, ci vediamo nel weekend a Gravina o ad Andria, in luoghi neutri. Ho tre figli e il mio rapporto con mia moglie è splendido, anche se siamo separati dal 2012. Ognuno di noi si porta dentro una sofferenza immensa”, osserva il signor Lioce. La sua situazione appare quella più seria, benché sia l’unico con un lavoro stabile.
Dipendente di Amiu Puglia, con la cessione del quinto, ha dovuto lasciare la sua abitazione familiare ed eroga alla moglie disoccupata 900 euro di alimenti per sostentare tre ragazzi di 20, 17 e 11 anni, detratti direttamente in busta paga. Gli restano pochissime decine di euro per vivere. Non ha più l’automobile, ma solo una bici. E dice di non avere alternative alla Casa Monsignor Farina né nella cerchia amicale nè nella famiglia più allargata. Vive dal novembre 2016 in Corso Vittorio Emanuele. La sua unica “via d’uscita”, dicono i conviventi, è ritornare con la moglie, dicendo addio al divorzio. Solo così tutta la famiglia tornerà ad avere la condizione economica precedente, senza rancori e rinfacciamenti. Ma la sua consorte vorrà? Il percorso mirava appunto a tenere in vita il sacramento del matrimonio.
Matteo
È arrivato nella Casa della Cei a marzo 2017. “Mia moglie vive con un nuovo compagno, l’anno scorso ho perso il lavoro al supermercato e vivevo in un box messomi gentilmente a disposizione da un parente in Via D’Addedda. Don Francesco ha visto la mia situazione e mi ha dato questa opportunità dicendomi che finché non avrei camminato da solo avrei potuto stare qui. Due miei bambini infatti, oggi vivono con me, gli altri due miei figli stanno da mia suocera. Sono più fortunato di altri, nell’atto di separazione sia io sia mia moglie abbiamo stabilito di non voler nulla l’uno dall’altra. Ma al momento sono disoccupato, se prendessi anche solo 700 euro al mese non starei qui”. E i Servizi Sociali? “Se andassi in assessorato, la prima cosa che farebbero sarebbe togliermi i bambini”.
Daniele
“Non sono né separato né divorziato, ho due figli grandi, ma sono dovuto andare via perché avevo perso il lavoro”. Il suo stato economico, la sua perdita di fiducia, l’essere licenziato dalla Cri, hanno incrinato terribilmente i rapporti con sua moglie. È stato ospitato per qualche mese dalla sorella e dal marzo 2017 ha trovato accoglienza nella Casa Monsignor Farina.
“Di queste esperienze ce ne vorrebbero cento, nessuno di noi sapeva che sarebbe stata a tempo”. “Ma dov’è la carità cristiana? Forse solo perché siamo italiani non possiamo avere un tetto?”, s’azzarda a dire il dipendente della società della nettezza urbana, ventilando i rumors di un cambio di destinazione d’uso dello stabile, che potrebbe essere utilizzato per gestire le richieste della Prefettura per l’emergenza migranti. Le voci sono tante, c’è anche chi sostiene che il palazzo storico, ristrutturato dalla gestione Catalano, si presta bene ad un museo diocesano e ad usi più culturali.
Pasquale
Quella del signor Ciampoli è una situazione complicata. Un tempo è stato un imprenditore agiato, assai noto a tutti i circoli abbienti, alla politica e alla società civile della città, oggi è un anziano malato. I “casi della vita”, come spiega, lo hanno ridotto sul lastrico. Ha una pensione sociale di 448 euro e paga 198 euro al mese per curarsi. “Sono separato, mia figlia lavoricchia e mio figlio ha un negozio. A marzo del 2017 avevo fatto presente a don Francesco che c’era un mio carissimo amico disposto ad affittarmi un pianterreno a 120 euro, ma lui mi ha dato rassicurazione dicendomi che nessuno mi avrebbe cacciato di qui”.
Oggi però sembra tracciata la fine dell’ospitalità. I quattro uomini chiedono un confronto pubblico col Vescovo. Desiderano sapere perché questa esperienza non può replicarsi in qualche altro luogo della Chiesa foggiana. Sono anche disposti ad accettare delle condizioni, ora che hanno piena autoconsapevolezza di sé.