Perché la soluzione dei due Stati è ormai impossibile da realizzare

soluzione due stati impossibileTPI. Gli accordi di Oslo del 1993 avevano come obiettivo la creazione in Medio Oriente di due Stati indipendenti. Venticinque anni dopo nessun passo avanti è stato fatto verso la soluzione del conflitto israelo-palestinese.
Credit: AFP
Il 27 settembre 2018 l’Assemblea generale dell’Onu è stato il teatro dell’ennesima, infruttuosa tappa del processo di pace che da decenni cerca di porre fine al conflitto tra due grandi antagonisti: l’Israele di Netanyahu e la Palestina di Abu Mazen.

Entrambi i leader hanno preso la parola e riaffermato quello che già tutti sapevamo: non ci saranno passi in avanti nella creazione di uno Stato palestinese, a meno che una delle due parti non si pieghi alla volontà dell’altra.

Peccato che a farla da padrone siano, ancora una volta, gli israeliani, che possono vantare il supporto degli Stati Uniti e di un presidente che a margine dell’Assemblea ha detto che la soluzione dei due Stati “sarebbe un sogno”, ma che “se ne fanno uno solo o se ne fanno due a me va bene purché siano entrambi felici”.

L’importante, per il presidente venuto dal grande schermo, è portare a casa un risultato di cui vantarsi.

L’Accordo del secolo.

Il presidente Trump e i suoi collaboratori stanno preparando da tempo il famoso “Accordo del secolo” che dovrebbe porre fine all’annosa questione israelo-palestinese, ma la diffusione di nuovi dettagli viene rimandata da mesi.

Ad oggi, le poche informazioni che si hanno non sembrano promettenti, almeno non per i palestinesi. Non a caso l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) ha già rigettato l’accordo e dichiarato di non avere alcuna intenzione di sedersi al tavolo con Israele e tantomeno con gli Usa se non verranno esaudite alcune importanti quanto storiche richieste.

Il Deal of the century, nome più adatto a un programma televisivo che ad un accordo di pace, non contempla il diritto dei palestinesi a fare ritorno alle loro terre, riconosce Gerusalemme come capitale unicamente di Israele e concede una sovranità limitata all’Olp su circa metà della Cisgiordania e la Striscia di Gaza.

Il tutto senza tener conto, come già gli Accordi di Oslo, della risoluzione Onu n.194 sul diritto dei palestinesi al ritorno, né della richiesta di fondare uno Stato palestinese nel rispetto dei confini del 1967.

Il potere di Israele nella regione.

A rendere ancora più evidente il fatto che una soluzione dei due Stati non sarà raggiungibile né a breve né, salvo drastici cambiamenti, nel lungo periodo, ci ha pensato il premier Netanyahu con il varo della legge che riconosce Israele come Stato “unicamente ebraico”.

Niente più arabo nelle scuole e nei documenti e implementazione della costruzione degli insediamenti ebraici, considerati come “interesse nazionale” nonché “miglior risposta al terrorismo”, per dirlo con le parole del ministro della Difesa israeliano.

Del resto, la demolizione del villaggio beduino di Khan al-Ahmar programmato per il primo ottobre, in piena violazione delle leggi internazionali, è la dimostrazione del potere che Israele detiene nella regione e dell’impunità con cui sa di poter operare.

Inoltre, con questa mossa lo Stato ebraico potrà unire il villaggio di Maale Adumim, vicino a Gerusalemme, e quello di Kfar Adumim, tagliano in due la Cisgiordania e rafforzando il suo controllo sulla regione.

Le vuote minacce di Abu Mazen all’Onu.

“Gerusalemme non è in vendita e i diritti del popolo palestinese non possono essere contrattati”. Abu Mazen, leader dell’Olp, ha aperto così il suo discorso all’Assemblea delle Nazioni Unite, cercando di vantare un potere, fosse anche solo negoziale, che in realtà non ha.

La “minaccia” più grande fatta da Abbas è stata quella di “non riconoscere più Israele fino a quando Israele non riconoscerà lo Stato di Palestina nei confini del 4 giugno 1967”.

Il leader dell’Olp ha anche avvertito che chiederà alla Corte penale internazionale di indagare sulle violazioni dei diritti da parte di Israele nei territori occupati. Peccato però che lo Stato ebraico non abbia mai firmato lo Statuto di Roma, per cui non è certo che la Corte possa condurre tali indagini.

Minacce vuote, dunque, quelle di Abu Mazen, ancora una volta privo di alleati all’altezza degli Stati Uniti, con la striscia di Gaza ancora nelle mani di Hamas e incapace di guardare in faccia la realtà e ammettere che una soluzione dei due Stati sulla linea degli Accordi di Oslo è ogni giorno di più un’utopia.

La risposta di Netanyahu

Pur avendo preso la parola dopo il leader dell’Olp, Netanyahu ha concentrato il suo discorso principalmente sulla minaccia iraniana in Medio Oriente, dedicando ben poco spazio ad Abbas.

Il leader israeliano ha sminuito ancora una volta la figura di Abu Mazen, accusandolo di essere un negazionista e di avere legami con i terroristi impegnati nella distruzione di Israele e dei suoi cittadini.

Così facendo, il premier israeliano ha sottilmente mostrato quanto poco rilevanti siano le parole di Abbas, a cui ha risposto con fare più seccato che preoccupato.

A sottolineare il potere – e la prepotenza – di Netanyahu sono anche le parole sprezzanti da lui stesso pronunciate nei confronti dell’Onu, definito un “teatro dell’assurdo”.

Dichiarazioni che non devono sorprendere, data la poca considerazione che il premier israeliano ha sempre dimostrato nei confronti dell’Organizzazione e delle sue risoluzioni, mai applicate e sempre disattese nella più generale impunità.

L’appoggio degli Stati Uniti a Israele

Se l’apertura dell’ambasciata statunitense a Gerusalemme non fosse già un indizio più che sufficiente dell’amicizia Usa-Israele, l’attualità fornisce altri due esempi.

A inizio settembre, l’amministrazione Trump ha annunciato la chiusura della rappresentanza diplomatica palestinese a Washington in un documento in cui affermava che “gli Stati Uniti rimarranno sempre a fianco” del loro “amico e alleato, Israele”.

“L’amministrazione non manterrà l’ufficio aperto sino quando i palestinesi si rifiutano di avviare negoziati diretti e significativi con Israele”.

Per far capire che non stavano scherzando, gli Stati Uniti hanno anche revocato il permesso di residenza di Husam Zomlot, capo della delegazione generale dell’Olp a Washington e annullato il permesso di soggiorno dei membri della sua famiglia.

La decisione è stata presa come ritorsione per l’abbandono dei negoziati da parte dell’Olp e per la minaccia di deferire Israele davanti alla Corte penale internazionale.

Ancora prima, il Dipartimento di Stato americano aveva  interrotto i finanziamenti all’Unrwa, l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei rifugiati palestinesi nel Vicino Oriente.

La decisione era stata criticata dall’ambasciatore palestinese a Washington, che aveva denunciato il sostegno incondizionato degli Usa agli israeliani.

“Sostenendo la retorica israeliana più estrema su ogni questione, compresa quella dei diritti di oltre cinque milioni di rifugiati palestinesi, l’amministrazione Usa ha perso il suo status di peacemaker e sta danneggiando non solo una situazione già volatile, ma la stessa prospettiva di pace”.

Alla luce degli ultimi episodi, è facile capire da che parte penderà l’ago della bilancia nei prossimi negoziati di pace sotto l’egida degli Stati Uniti.

Il futuro di Israele e Palestina

Fin dal 1993 e dalla firma degli Accordi di Oslo, gli sforzi diplomatici per la soluzione del conflitto israelo-palestinese si sono diretti verso la creazione di due Stati indipendenti: Israele da una parte, Palestina dall’altra e un’unica capitale, Gerusalemme, divisa tra i due.

Gli Accordi a lungo andare sono diventati un mantra, un modello di riferimento che non lasciava spazio a nessuna altra idea, un continuo teatro di scontro tra Israele e Palestina in cui ognuna delle due parti cercava di sminuire l’altra in attesa di raggiungere un accordo migliore che non è mai arrivato.

Dopo 25 anni dalla firma di quello che doveva essere il “miglior accordo possibile” la situazione non è migliorata, anzi. Il potere di Israele continua ad aumentare, spalleggiata sempre più apertamente dagli Stati Uniti e sempre meno velatamente dagli Stati arabi, Arabia Saudita in primis.

Ai palestinesi invece non resta che una prigione a cielo aperto governata da Hamas, un territorio su cui non hanno effettivo controllo e un leader le cui parole cadono molto spesso nel vuoto.

Non resta che vedere cosa proporrà Trump con il suo Accordo del secolo e quale sarà la reazione – forse già scontata – dell’Olp e di Hamas, con cui tutti fingono di non voler trattare, ma che non potrà essere escluso per sempre dal tavolo dei negoziati.