30 Gen 2018

Aden, i rischi di una crisi annunciata

Yemen

Yemen. Ad Aden si combatte e si muore, ma non è la guerra civile che da quasi tre anni insanguina il paese. Un altro fronte di conflitto si è aperto nella seconda città yemenita (quasi esclusivamente sunnita), stavolta tra i filo-governativi, leali alle istituzioni riconosciute dalla comunità internazionale, e i secessionisti meridionali del Consiglio Transitorio del Sud (Stc), di fatto il terzo governo del paese. Il numero delle vittime accertate ha già superato la ventina, complice anche l’immediato ricorso all’artiglieria pesante. Dopo tre giorni di combattimenti, i separatisti controllano gran parte di Aden, mentre i lealisti sarebbero confinati al solo palazzo presidenziale.

Mai crisi fu più preannunciata: nell’aprile 2017, queste due fazioni si scontrarono apertamente all’aeroporto di Aden.  D’altronde, le contraddizioni interne al fronte anti-huthi erano troppo marcate, così come le ambiguità dentro la Coalizione araba a guida saudita-emiratina. Lo spettro di un’escalation violenta nel Sud aleggiava da tempo, alimentato dalla compresenza di agende politiche locali divergenti, vecchi rancori fra clan regionali, nonché dalle forti ambizioni geopolitiche degli Emirati Arabi Uniti[1] .

I secessionisti, guidati dall’ex governatore di Aden, Aidarous Al-Zubaidi, avevano lanciato un avvertimento all’esecutivo di transizione, accusato di malgoverno e corruzione: una settimana di ultimatum scaduta proprio domenica 29 gennaio, quando gli scontri hanno avuto inizio. Pochi giorni prima, il Stc aveva annunciato la creazione delle Forze di Resistenza del Sud (Southern Resistance Forces), ovvero quell’esercito yemenita meridionale di cui proprio gli emiratini hanno gettato le basi, finanziando, addestrando, equipaggiando e coordinando le principali milizie del Sud: le Security Belt Forces su tutte, incaricate della sicurezza di Aden e dintorni.

Queste milizie, composte da secessionisti, salafiti ed ex militari della Repubblica Democratica Popolare dello Yemen (Pdry), sono formalmente affiliate al Ministero dell’Interno o all’esercito yemenita, ma di fatto rispondono ad Abu Dhabi. Il primo nucleo di tali forze aveva combattuto contro gli huthi, con il nome di “Resistenza Meridionale”, costringendo gli insorti a ritirarsi da Aden nell’estate del 2015. Nella città, la guerra finì allora: Aden ha dinamiche proprie rispetto al resto dello Yemen. Da subito si aprì la competizione tra i filo-governativi, sostenuti dall’Arabia Saudita e i separatisti, appoggiati dagli Emirati Arabi. 

Facile comprendere contro chi si indirizzi oggi la “resistenza” di chi aspira all’indipendenza: il Movimento Meridionale (Al-Hiraak Al-Janubi), ovvero la forza popolare sulla quale il Stc si è costruito come organo di auto-governo nel maggio 2017, nasce nel 2007, proprio dalle proteste dei militari sudisti licenziati dall’esercito unitario dopo la sconfitta nella guerra civile del 1994.

Aden è anche la sede provvisoria del governo riconosciuto, dopo il golpe degli huthi a Sana’a.  Istituzioni da sempre deboli: prova ne è che il presidente ad interim Abd  Rabu Mansur Hadi è quasi sempre a Riyadh. Domenica scorsa, quando la Guardia presidenziale, fedele a Hadi, ha cercato di impedire l’ingresso dei manifestanti anti-governativi nella città, gli scontri sono iniziati. Miliziani secessionisti  starebbero confluendo su Aden dalle regioni di Mareb e Abyan. Il primo ministro yemenita, Ahmed bin Dagher, ha subito invocato l’intervento della Coalizione militare araba, denunciando “il tentativo di golpe in atto”. Quest’ultima ha richiamato alla “calma”, incoraggiando il negoziato fra le parti, perché “gli yemeniti devono essere uniti contro gli huthi”.

Di fronte a uno scenario di escalation, i rischi interni e regionali della crisi di Aden sono molteplici. Innanzitutto, gli huthi potrebbero riguadagnare posizioni sul campo, specie nell’Ovest costiero, se i filo-governativi concentrassero sulla città portuale (come probabile) numerose unità militari in chiave anti-separatista. Seppur attraversi una fase di ripiegamento, anche al-Qaʽida nella Penisola Arabica (Aqap) potrebbe tentare nuove offensive territoriali tra centro e sud. Quindi, la crisi di Aden potrebbe vanificare i limitati ma significativi progressi territoriali della Coalizione (Al-Khokha nell’Ovest, collegamento fra Sa’da e Al-Jawf) seguiti all’uccisione dell’ex presidente Ali Abdullah Saleh del 4 dicembre scorso e dunque allo sgretolamento del fronte degli insorti.

La guerra civile sta profondamente cambiando l’Islam politico yemenita, rendendo sempre più permeabili e confusi i confini tra Fratelli Musulmani (qui in piena crisi), salafiti, jihadisti: lo scontro di Aden polarizza ulteriormente il panorama sunnita dello Yemen, che rappresenta il 55-60% della popolazione nazionale. In particolare, le tradizionali categorie del salafismo yemenita sono state alterate dal conflitto: a differenza di prima, i salafiti sono sempre meno quietisti e sempre più politicizzati e, in alcuni casi, militarizzati. 

Al-Hiraak nasce come movimento laico. Tuttavia, le componenti salafite, appoggiate dagli emiratini, sono divenute sempre più potenti all’interno del Stc. Il connubio fra ideologia salafita e spinta indipendentista può generare risultati nefasti, in un’area del paese in cui l’odio nei confronti del vecchio regime, monopolizzato dal Nord e percepito come punitivo nei confronti del Sud, è più che mai vivo. Tra l’altro, gli yemeniti del Sud sono uniti contro le istituzioni centrali, ma assai divisi fra loro su risorse, leadership e power sharing (vedi Hadhramaut e Al-Mahra nell’est, ma anche Abyan e Lahj nel sud tribale). Aden si affaccia sull’omonimo golfo, una porzione di mare strategica per la sicurezza marittima ed energetica mondiale: è interesse di tutta la comunità internazionale che la città e il sud costiero imbocchino la via della stabilizzazione. 

E poi ci sono Arabia Saudita ed Emirati Arabi, che nel Sud hanno scommesso su due squadre rivali. Riyadh ha lasciato ad Abu Dhabi la gestione militare nella regione meridionale, che gli emiratini hanno trasformato in un’ideale piattaforma geostrategica per le loro ambizioni commerciali e militari. Le formazioni secessioniste e i gruppi salafiti di Aden e dintorni hanno trovato negli emiratini sponsor generosi e organizzati. In Yemen la partita di Riyadh (contro gli huthi e l’Iran) e la partita di Abu Dhabi (contro Fratelli musulmani, qaedisti e per il prestigio regionale) non possono più giocarsi parallelamente: qualcuno dovrà rinunciare a qualcosa. Di certo i sauditi hanno bisogno dell’expertise militare degli emiratini, che adesso ribadiscono il sostegno al governo riconosciuto. I secessionisti rimarranno delusi o Riyadh finirà per avvicinarsi alla linea autonomista degli Emirati Arabi?

 
1.   “Yemen: regionalizzazione di una crisi interna”, Nota per l’Osservatorio di Politica Internazionale del Parlamento, 16 novembre 2017;  “UAE’s military priorities in Yemen: Counterterrorism and the South“, ISPI Commentary, 28 July 2016.

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