3 Nov 2017

Commercio internazionale: USA e Cina nel multilateralismo che langue

Durante l’imminente visita di Stato del Presidente Trump in Cina, le relazioni commerciali tra le due economie più grandi del pianeta saranno uno tra i temi più caldi, secondo quanto annunciato ieri dalla Casa Bianca. Ben oltre le frizioni sull’andamento dell’interscambio tra i due paesi, che non sono di certo una novità, il grande tema […]

Durante l’imminente visita di Stato del Presidente Trump in Cina, le relazioni commerciali tra le due economie più grandi del pianeta saranno uno tra i temi più caldi, secondo quanto annunciato ieri dalla Casa Bianca. Ben oltre le frizioni sull’andamento dell’interscambio tra i due paesi, che non sono di certo una novità, il grande tema economico del viaggio del Presidente americano in Asia sarà il futuro del commercio in tutta l’area del Pacifico, che ora viene definito dalla Casa Bianca “India-Pacifico”, che va dall’India al Giappone passando per il sudest asiatico e la Corea, un interessante virata rispetto al tradizionale Asia-Pacifico, che include evidentemente anche la Cina.

Dopo il ritiro unilaterale e indubbiamente affrettato di Trump dal TPP, alleanza trans-pacifica che era costata anni di difficili negoziazioni, Washington oggi dichiara di voler tessere alleanze per una prosperità condivisa (“shared prosperity”) nella regione, adottando un linguaggio paradossalmente simile a quello dei cinesi, a loro volta impegnati a tessere alleanze nel sud dell’Asia per dominare gli scambi nel continente. E questo proprio nel momento in cui altri grandi paesi asiatici, in primis Giappone e India, corrono in bilaterale ai ripari del fallito TPP per contrastare il peso della Cina.

In un sistema multilaterale in stallo, sarà una serie di dialoghi bilaterali, quella di Trump, alla ricerca di alleati per contrastare l’ascesa della Cina, nei confronti della quale gli Stati Uniti sollevano da tempo accuse di mercantilismo, testimoniato da circa tre decenni di avanzi commerciali a fronte di elevati disavanzi americani (per quasi 350 miliardi di dollari nei confronti della sola Cina nel 2016). Ma stavolta la questione è più articolata del solito. È passato di moda l’argomento facile della manipolazione cinese del tasso di cambio per guadagnare competitività di prezzo al di là dei grandi vantaggi comparati nella manifattura leggera. Anche con un tasso di cambio reale effettivo che si è rivalutato di circa il 30% dal 2000, le esportazioni cinesi nel mondo sono aumentate e questo mostra, da un lato, il miglioramento qualitativo della produzione cinese in molti settori, dall’altro lato, la crescente dipendenza strutturale di molte filiere industriali dalle fasi realizzate in Cina, spesso da imprese estere o sempre di più dalle stesse imprese cinesi.

Se trent’anni fa agli Stati Uniti – con un sistema produttivo in piena fase di outsourcing – premeva che la Cina si adeguasse al sistema multilaterale degli scambi entrando a far parte della World Trade Organisation (Wto), oggi, dopo 15 anni dall’ingresso, rischia di vederle concedere le condizioni che il Wto stesso le ha imposto per entrare. È questo il caso dello status di economia di mercato che la Cina oggi pretende proprio da parte degli Stati Uniti e dall’Unione Europea, i suoi principali partner commerciali. Tale status porrebbe fine al primato cinese nel numero di azioni anti-dumping aperte a suo carico, soprattutto da Stati Uniti ed Unione Europea, appunto, aumentando la capacità esportativa cinese su quei mercati. Secondo uno studio del 2016 del Cepii, il passaggio allo status di economia di mercato farebbe aumentare l’export cinese in Europa del 21%, pari a 84 miliardi di dollari. Negli Stati Uniti l’effetto sarebbe ancora più grande, tenendo conto che la loro discrezionalità nel valutare le merci cinesi è di gran lunga maggiore di quella europea, e si traduce in una sanzione media del 162% nei confronti dei beni cinesi rispetto al 33% sui beni provenienti dalle economie di mercato.

 

Mentre Pechino sostiene di aver rispettato le regole, Washington ritiene che non ci siano regole adeguate per valutare la forza competitiva di merci prodotte con sussidi di Stato e accusa il Wto di assecondare il mercantilismo di Stato cinese. All’origine di tutti questi mali è lo stallo del multilateralismo e il proliferare di una serie di accordi commerciali bilaterali o regionali, ammessi dal Wto nella convinzione che siano un passaggio intermedio verso una maggior apertura incondizionata degli scambi, ma che in assenza di round multilaterali diventano invece un regresso rispetto ai fini ultimi dell’Organizzazione, che oggi è diventata più a place for litigation che a place for negotiation. Se la sopravvenuta consapevolezza di Trump di non poter rifiutare un dialogo sulle regole del commercio degli Stati Uniti nel Pacifico è benvenuta, il ritorno di questi temi ai vertici bilaterali è un pessimo segnale per Ginevra e per il futuro del sistema multilaterale del commercio mondiale.

 

Alessia Amighini, Co-Head ISPI Asia Center

 

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