1 Mar 2018

Iran-Arabia Saudita: rivalità geopolitica, non settaria

La rivalità tra Iran e Arabia Saudita, spesso dipinta come il risultato della contrapposizione tra sciiti e sunniti, ha origine in realtà nel 1979, vero anno spartiacque per gli equilibri politici mediorientali. La rivoluzione iraniana, che nel febbraio di quell’anno ha condotto alla fuga lo shah e all’instaurazione del governo islamico, ha riportato prepotentemente l’Islam […]

La rivalità tra Iran e Arabia Saudita, spesso dipinta come il risultato della contrapposizione tra sciiti e sunniti, ha origine in realtà nel 1979, vero anno spartiacque per gli equilibri politici mediorientali. La rivoluzione iraniana, che nel febbraio di quell’anno ha condotto alla fuga lo shah e all’instaurazione del governo islamico, ha riportato prepotentemente l’Islam al centro delle vicende politiche della regione. 

Anche se inizialmente il messaggio di Khomeini non era un messaggio settario – l’ayatollah aspirava anzi a fare dell’Iran un modello per l’intera umma islamica – nei fatti la sua dottrina di governo (velayat-e faqih) era un abito tagliato su misura per lo sciismo: la responsabilità di governo viene infatti affidata all’esperto della legge religiosa (faqih), che viene presentato alla stregua degli Imam, che per l’Islam sciita sono figure venerabili e infallibili. 

La rivoluzione e l’instaurazione di una Repubblica islamica in Iran spaventarono l’Arabia Saudita. Prima di allora, Teheran e Riyadh erano non solo amici ma addirittura uniti da un comune legame di alleanza con gli Usa. Washington basava infatti sui due giganti politico-militari della regione la sua strategia di contenimento dell’Unione sovietica (la dottrina dei “due pilastri” di Nixon). L’affermazione delle forze rivoluzionarie in Iran e l’instaurazione della Repubblica islamica cambiarono tutto: l’anti-imperialismo che contraddistingueva l’ideologia rivoluzionaria si tramutò rapidamente in anti-americanismo, soprattutto in seguito alla crisi degli ostaggi iniziata nel novembre 1979. Tutto ciò che aveva a che fare con gli Stati Uniti o che rappresenta una loro emanazione veniva contestato. Se Washington divenne il “grande Satana”, Israele divenne il “piccolo Satana”, due emblemi dell’imperialismo e della politica di ingerenza e occupazione occidentale. I sovrani sauditi, alleati degli Usa, vennero equiparati da Khomeini allo shah, a sua volta paragonato al califfo Yazid, l’usurpatore per eccellenza nell’immaginario sciita. 

Gli attacchi verbali di Khomeini arrivarono dritti all’anima della monarchia saudita, che vedeva minacciato il proprio ruolo di guida del mondo islamico. La legittimità della casa reale saudita deriva infatti dal patto siglato nel 1932 dal fondatore del Regno ibn-Saud con i religiosi wahabiti, esponenti di una corrente dell’Islam che percepisce gli sciiti come eretici, non musulmani. La monarchia degli al-Saud ha potuto perpetuarsi all’interno del paese grazie alla legittimazione fornita da questa alleanza e nella regione grazie al proprio ruolo di custodi dei luoghi sacri dell’Islam, Mecca e Medina. Non deve stupire dunque che a Riyadh si tema che la rivoluzione iraniana scardini questi equilibri. 

La tensione esplose già nel novembre 1979. Mentre in Iran era in corso la crisi degli ostaggi dell’ambasciata statunitense, in Arabia Saudita un attentatore metteva sotto attacco la grande moschea di Mecca. Tanto a Riyadh quanto in Occidente si attribuì la responsabilità dell’accaduto all’Iran, salvo poi scoprire che a organizzare l’attacco era stato un estremista wahhabita che protestava contro la politica di vicinanza all’Occidente e di parziale liberalizzazione avviata dalla casa reale. L’attentato di novembre rappresentò dunque un altro momento di cesura: Riyadh interruppe bruscamente la politica di modernizzazione e accentuò la stretta conservatrice. Nel frattempo, a Teheran cominciò il decennio khomeinista, segnato dalla radicalizzazione della Repubblica e dai tentativi di esportazione della rivoluzione. Ecco che dunque alla fine del 1979 furono già piantati i semi del settarismo che avrebbero avvelenato la regione negli anni a venire, creando una politicizzazione delle identità (la cosiddetta “settarizzazione”) che avrebbe creato ostilità laddove non ce ne erano mai state. 

Negli anni successivi, la competizione tra i modelli alternativi iraniano e saudita si estese all’intero Medio Oriente. Il Pakistan di Zia-ul-Haq – una Repubblica islamica – divenne il terreno ideale per la diffusione del credo wahhabita. Con i proventi della vendita del petrolio, l’Arabia Saudita finanziò in Pakistan l’apertura di numerose scuole religiose, in cui si insegnava una versione dell’Islam profondamente conservatrice e settaria. 

L’Afghanistan, invaso dai sovietici nel 1979, divenne fronte ed epicentro del jihad: ai mujaheddin afghani – selezionati dai servizi segreti pakistani e finanziati da Stati Uniti e Arabia Saudita – venne affidata l’etichetta romantica di “combattenti della libertà”, mentre in realtà si stavano creando le premesse per la nascita dei movimenti islamici integralisti degli anni a venire. 

Ma la storia è scorsa velocemente anche sul fronte occidentale del Grande medio oriente. Nel Libano del sud, nel contesto dell’invasione e dell’occupazione israeliana del giugno 1982, nacque e si sviluppò un movimento combattente destinato a divenire poi partito politico. È l’Hezbollah, il partito di Dio creato dai Guardiani della rivoluzione iraniani (pasdaran) per spostare l’asse del confronto con Usa, Israele e Arabia Saudita nel Levante arabo. Nacque il fronte della Resistenza, cominciò l’epoca degli attacchi suicidi che oggi attribuiamo perlopiù a movimenti integralisti sunniti, e che resero il Libano degli anni ’80 l’altro epicentro del terrore – questa volta sciita. 

È dello stesso decennio un altro evento fondante per la storia della regione. Nel settembre 1980 l’Iraq di  Saddam Hussein invase l’Iran ancora in preda alle convulsioni rivoluzionarie, confidando in una vittoria rapida che avrebbe messo fine decenni di rivalità. Ma l’Iran – seppur isolato e mal armato – riuscì a resistere, grazie soprattutto alla mobilitazione di masse enormi di giovani combattenti mandati al martirio sul fronte iracheno. Questa mobilitazione straordinaria fu resa possibile dall’ideologizzazione della lotta: si combatteva per difendere la patria (tanto che la guerra viene definita “sacra difesa”) e per conquistare un posto in paradiso. Ancora oggi sulle strade iraniane campeggiano poster e ritratti dei giovani martiri, mentre nelle fontane nei cimiteri scorre acqua colorata di rosso per evocare il sangue versato per la patria. Nella primavera del 1982 l’offensiva irachena fu respinta, l’Iran aveva la possibilità di porre fine ai combattimenti, ma Khomeini decise di non accettare il cessate il fuoco e di continuare la sacra battaglia al grido di “prenderemo Karbala”, dal nome della battaglia fondante per lo sciismo delle origini. È questo il vero punto di svolta: i paesi del Golfo, fino ad allora tenutisi in disparte, cominciarono ad appoggiare, rifornendolo di armi, l’Iraq di Saddam Hussein, che nell’indifferenza della comunità internazionale ricorse anche all’uso delle armi chimiche. È così che la “sacra difesa”, la “guerra imposta”, divenne battaglia per la sopravvivenza della Repubblica; è così che nacque e si acuì quel senso di solitudine strategica che portò l’Iran ad autopercepirsi come vittima dei disegni regionali, che lo portò a reclamare – come già gli sciiti a Kerbala – quel ruolo che sentiva spettargli di diritto. La guerra finì solo nel 1988, quando Khomeini – che morì l’anno successivo – accettò di “bere l’amaro calice”. 

Con la morte di Khomeini, la modifica costituzionale e l’ascesa al potere della fazione politica pragmatica facente capo a Hashemi Rafsanjani, per l’Iran gli anni Novanta furono gli anni della normalizzazione. La parola d’ordine non era più “esportare la rivoluzione” ma “ricostruire”. Cominciarono così i primi tentativi di dialogo con l’Arabia Saudita, che rimasero però occasioni non colte fino in fondo da entrambe le parti.

Ma fu ancora l’Iraq a tornare epicentro del mutamento degli equilibri regionali: l’invasione statunitense del 2003 e la decisione – contro cui si era pronunciata Riyadh – di abbattere il regime di Saddam Hussein, azzerare l’esercito e il partito Baath, aprirono a Baghdad un vuoto di potere e posero le basi per la “rivincita sciita”. Erano gli anni in cui il politologo iraniano-americano Vali Nasr pubblicò un libro il cui titolo fotografava la tendenza in atto nella regione: “The Shia revival”. La maggioranza irachena sciita, ampiamente marginalizzata negli anni di Saddam, salì al governo e nell’esercizio del potere dà luogo a una politica di vendetta nei confronti della popolazione sunnita. Di tutta risposta, cominciarono gli attacchi degli estremisti sunniti guidati da Abu Musab al-Zarqawi (giordano, addestrato nei campi del jihad afghano), a cui si aggiunsero gli ex ufficiali dell’esercito di Saddam e del partito Baath. Nel 2006 le bombe del movimento di al-Zarqawi – al-Qaeda in Iraq – distrussero la moschea sciita di Samarra; cominciò la scia di attacchi a mercati, luoghi di culto, ma anche omicidi mirati condotti dagli sqadroni della morte sciiti organizzati in milizie – molte delle quali già attive negli anni di Saddam e oggi attive nello scenario iracheno post-Daesh. L’Arabia Saudita si interrogò su come rispondere alle dinamiche irachene: cominciò così la mobilitazione di giovani sauditi, ma soprattutto cominciarono i flussi di finanziamento da uomini d’affari del Golfo diretti a fondazioni caritatevoli, con le quali però si finanziano combattenti e acquisti di armamenti. È in questo contesto che nel 2014 è arrivata come uno shock la proclamazione del Califfato da parte di Abu Bakr al-Baghdadi, a capo del sedicente Stato islamico, erede di al-Qaeda in Iraq. Ma lo shock è stato solo apparente per chi in quegli anni ha osservato le dinamiche irachene e ha messo in guardia dal diffondersi della violenza settaria. 

Queste logiche si estendono anche al campo siriano, dove la rivoluzione popolare scoppiata nel 2011 sulla scia delle Primavere arabe è caduta presto ostaggio dei giochi di potere regionali. Con il saldamento del fronte iracheno e siriano dello Stato islamico, gli sforzi della comunità internazionale si sono rivolti ufficialmente alla sconfitta del gruppo terrorista di al-Baghdadi. Ma sul campo, in realtà, si sono mescolate e continuano a farlo agende regionali e interessi particolari che hanno spostato il piano del conflitto da una lotta contro lo Stato islamico – ormai quasi interamente sconfitto a livello territoriale – a una lotta per l’influenza regionale nel Medio oriente post-Daesh. In Siria, l’Arabia Saudita sembra aver abbandonato l’idea di potersi opporre all’asse russo-iraniano, preferendo spostare il confronto al Libano, dove nei mesi scorsi le dimissioni forzate del premier Saad Hariri hanno aperto una crisi – solo per il momento rientrata – che ha fatto temere per l’equilibrio del fragile stato libanese, e che ha riportato prepotentemente alla ribalta la questione del ruolo di Hezbollah. In Iraq, la sconfitta territoriale di Daesh non ha risolto i diversi problemi del paese, che rimane ancora pesantemente in bilico tra una maggioranza sciita – ma frammentata al suo interno – e una minoranza sunnita che soffre condizioni di emarginazione. Non è un caso che nei mesi scorsi sia cominciata l’offensiva – al momento ufficialmente solo diplomatica – dell’Arabia Saudita che ha cominciato a “corteggiare” leader politici iracheni in vista delle elezioni del prossimo maggio. Elezioni in cui si presenteranno anche esponenti delle Forze di mobilitazione popolare (PMU), le milizie a maggioranza sciita che hanno combattuto Daesh sul campo e che sono molto vicine all’Iran. La grande incognita a cui i sauditi guardano con timore è la trasformazione di queste milizie in movimenti politici che possano perpetuare l’influenza iraniana sul paese, esattamente come successo in Libano con Hezbollah. 

Infine, c’è lo Yemen, schiacciato da conflitto spesso dimenticato ma che si appresta a entrare nel suo quarto anno. Qui, la lotta che i ribelli houthi conducono da anni contro il potere centrale è stata ammantata di settarismo, essendo gli houthi una minoranza sciita, nello specifico zaydita. Tuttavia, oltre a professare un tipo di sciismo profondamente diverso dallo sciismo duodecimano praticato per la maggioranza in Iran,  gli houthi rivendicano istanze che sono essenzialmente e inderogabilmente politiche. Lo stesso coinvolgimento iraniano – recentemente provato da un rapporto delle Nazioni Unite – sembra essere avvolto nell’incertezza e sembra più legato alla volontà di “tenere impegnata” l’Arabia Saudita nel suo cortile di casa che non a velleità di egemonia regionale. Ciò che emerge in maniera sempre più netta, invece, è il tentativo da parte saudita e statunitense di “esagerare” il ruolo iraniano in Yemen, allo scopo di perpetuare l’ostilità internazionale nei confronti di Teheran e prolungare l’isolamento dal quale ha cominciato a uscire dopo la firma dell’accordo sul nucleare.

Come visto in questa rapida escursione attraverso gli anni e gli scenari di crisi, la rivalità tra Arabia Saudita e Iran ha contribuito negli ultimi quarant’anni a destabilizzare il Medio oriente. Lungi però dal rappresentare una contrapposizione tra sciiti e sunniti, essa ha semmai provocato una politicizzazione delle identità che ha contribuito ad alimentare un conflitto che nasce come essenzialmente politico. Le crisi degli anni recenti – in Iraq, Siria, Yemen – hanno sia alimentato che tratto energia da tale veleno settario, rendendo le prospettive di una ricomposizione pacifica dello spazio politico mediorientale quantomai incerte. 

 

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