14 Feb 2018

La tentazione di Hezbollah: trascinare Israele nella guerra siriana

Chi è vicino a Hezbollah, sostiene che Hassan Nasrallah, il leader supremo del movimento sciita libanese, stia pensando che una nuova guerra con Israele sarebbe la soluzione del principale problema di tutto il mondo islamico nel Levante: la divisione fra sunniti e sciiti. Di fronte alla “santità” di un conflitto contro gli ebrei e al […]

Chi è vicino a Hezbollah, sostiene che Hassan Nasrallah, il leader supremo del movimento sciita libanese, stia pensando che una nuova guerra con Israele sarebbe la soluzione del principale problema di tutto il mondo islamico nel Levante: la divisione fra sunniti e sciiti. Di fronte alla “santità” di un conflitto contro gli ebrei e al permanere della “grande minaccia sionista”, il regime di Bashar al-Assad e le opposizioni islamiste che stanno riguadagnando terreno, girerebbero le loro armi verso Sud. Così sauditi e iraniani, i turchi e forse perfino i curdi.

È una follia pericolosa pensare che possa esistere una guerra o qualsiasi altra cosa capace di annullare la profondità delle divisioni, le opposte ambizioni regionali di sauditi e iraniani: senza contare quelle crescenti della Turchia di Erdogan. Sono circa 45 anni, dalla guerra del Kippur, che Israele non mobilita contro di sé fronti arabo-islamici. Posto sia stata davvero presa in considerazione, l’ipotesi del leader di Hezbollah in crescente difficoltà per l’impegno profuso in Siria, avrebbe l’effetto contrario. Un attacco sciita a Israele, con il fatale coinvolgimento iraniano, dividerebbe ancora di più la regione. Cadrebbe perfino il tabù storico, religioso e politico che fino a ora ha impedito a israeliani e sauditi di ammettere i loro comuni interessi strategici.

Non bisogna tuttavia dimenticare ciò che Hassan Nasrallah disse nel 2006, dopo aver ucciso tre soldati israeliani, averne rapiti altri due, provocato una guerra e la distruzione di mezzo Libano: “Non immaginavo che gli israeliani avrebbero reagito così”. La leggerezza delle valutazioni dei leader è spesso la causa di disastrosi conflitti. Inoltre il presunto arsenale di 40.000 missili di Hezbollah non si costruisce solo come arma preventiva. E per Israele la guerra di 12 anni fa, sospesa solo da un cessate il fuoco, resta un discorso aperto: un pilastro strategico dello stato ebraico e di Tsahal, le sue forze armate, è che un conflitto non vinto equivale a un conflitto perduto.

Le tentazioni di Nasrallah sono forse ipotetiche ma aiutano a capire quanto Israele resti politicamente e militarmente, oltre che geograficamente, sull’orlo del baratro siriano. Fino a ora lo stato ebraico si è tenuto miracolosamente lontano dal conflitto. Tutte le sue azioni militari dentro e ai limiti della Siria, sono state puramente difensive: più per impedire di essere convolti nel conflitto che nel desiderio di prendervi parte. Più intelligence che soldati. Prima della guerra civile, gli strateghi di HaKirya, il ministero della Difesa a Tel Aviv, consideravano la Siria come un nemico assoluto ma non un pericolo imminente: la stabilità del regime assicurava calma sul Golan, anche se poi il regime degli Assad mestava nel caos libanese e sosteneva le frange palestinesi più estreme. In ogni caso, dallo scoppio della guerra civile, Israele non ha mai approfittato del suo indebolimento: minare il controllo di Damasco sulla Siria è stata forse l’ambizione politica di qualche premier ma non un obiettivo strategico dei vertici della difesa israeliana.

Tuttavia le cose stanno evolvendo rapidamente. Dal 2011 il Medio Oriente, soprattutto il Levante, ha già vissuto tre fasi: le primavere arabe, le guerre civili e/o il ritorno dei regimi militari e l’Isis. Scomparsa l’entità territoriale dello stato islamico, il quarto capitolo è già iniziato: quello della creazione delle sfere d’influenza che potrebbe provocare una grande guerra mediorientale: sarebbe la prima nella regione senza avere Israele come soggetto principale. Per sfere d’influenza non s’intendono tanto quelle russe o americane, quanto le ambizioni dichiarate degli attori regionali, i veri protagonisti della vicenda: lo spazio che dal caos vuole crearsi la Turchia di Erdogan, la corsa al primato geopolitico e religioso fra Iran e Arabia Saudita, e geograficamente un po’ più distante, il futuro della Libia e delle sue ricchezze energetiche.

Israele è esterno a queste dinamiche. I suoi obiettivi sono limitati rispetto ai protagonisti della regione: annettere territori occupati e impedire la nascita di uno stato palestinese o, secondo chi governi a Gerusalemme, cercare su questo una soluzione pacifica e negoziata. Oltre alla retorica pretestuosa, per i turchi, i sauditi, gli iraniani, Hezbollah e tutti gli altri, la causa palestinese è tutt’altro che una priorità: posto che in questi 70 anni lo sia mai stata.

Sarebbe tuttavia difficile per Israele restare fuori da un conflitto di queste dimensioni, combattuto così vicino ai suoi confini e con l’Iran attivo protagonista. Dal punto di vista israeliano, il risultato più importante – e pericoloso – delle tre fasi vissute fino ad ora nel Levante, è la presenza più o meno discreta dei militari iraniani alle sue frontiere con la Siria e col Libano. Pensare a una convivenza sarebbe un pio desiderio.

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