2 Nov 2017

L’America in Asia e l’Europa alla finestra

La visita di Stato di Donald Trump in Asia avviene in un momento delicato per la vita politica della regione. Negli scorsi mesi, i test nucleari nordcoreani hanno portato a un aumento della tensione che l’irrigidimento della posizione di Washington non ha fatto nulla per contenere. Durante gli anni dell’amministrazione Obama, gli alleati regionali hanno […]

La visita di Stato di Donald Trump in Asia avviene in un momento delicato per la vita politica della regione. Negli scorsi mesi, i test nucleari nordcoreani hanno portato a un aumento della tensione che l’irrigidimento della posizione di Washington non ha fatto nulla per contenere. Durante gli anni dell’amministrazione Obama, gli alleati regionali hanno espresso in più occasioni il loro disagio per le scelte degli Stati Uniti considerati (a torto o a ragione) troppo passivi rispetto alle ambizioni di Pyongyang. Oggi, le parti sembrano essersi invertite, con Tokyo e Seoul (da sempre attive nel chiedere un’azione decisiva contro la minaccia costituita dai programmi di Kim Jong-un) che vivono con disagio la possibilità di una escalation della quale rischiano di essere le prime vittime. Non è, tuttavia, solo la questione nordcoreana a dare interesse al viaggio del Presidente. La decisione della Casa Bianca di rivedere la Trans-Pacific Partnership (TPP) e, più in generale, di ripensare tutta una politica commerciale considerata contraria agli interessi statunitensi, pesa anch’essa sui rapporti con un mondo che è cresciuto, in larga misura, grazie al legame sostanzialmente simbiotico con l’economia USA. Il fatto che, accanto a due alleati “storici” come la Corea del Sud e il Giappone, il viaggio di Trump preveda una tappa in Cina (oltre che in Vietnam e nelle Filippine del “volatile” Rodrigo Duterte) aggiunge un ulteriore elemento di interesse. In più occasioni il Presidente ha attaccato Pechino per quelle che ha etichettato come le sue politiche commerciali “inique”; egualmente problematiche sono – per l’amministrazione – le mire egemoniche della Cina, mire che negli anni di Obama gli Stati Uniti avevano cercato in qualche maniera di assecondare nell’interesse della stabilità regionale.

È difficile prevedere quali saranno gli esiti della visita, considerate anche le esuberanti esternazioni cui Donald Trump ci ha ormai abituato e lo scarto che in genere esiste fra queste e la realtà dei fatti. È tuttavia già significativo il fatto che – anche in assenza di grandi impegni internazionali (se si esclude il vertice Asean al quale Trump dovrebbe presenziare durante la tappa a Manila) – il Presidente decida di dedicare una settimana a consolidare le relazioni con gli alleati asiatici e ad alimentare quelle con i vertici cinesi dopo l’inaspettatamente produttivo vertice di Mar-a-Lago dello scorso aprile. Un segnale – se ce ne fosse bisogno – di come Washington, nonostante il cambio di amministrazione, continui a dedicare un’attenzione particolare al Pacifico, considerato ormai come il vero teatro strategico, e di come, anche se gli artifici retorici del “Pacific century” e del “pivot to Asia” sembrano essere stati dimenticati (un processo di rimozione avviato già durante gli anni del secondo mandato Obama), l’idea a questi sottesa sia ancora viva. Non è un caso che la posizione di Trump sulla Cina abbia registrato importanti evoluzioni rispetto ai mesi della campagna elettorale. L’individuazione di un modus vivendi con Pechino costituisce, oggi, “la” priorità della politica estera statunitense, sia per il livello di interdipendenza che si è instaurato fra le due economie, sia per il contributo che la Rpc può offrire alla stabilità e alla sicurezza regionale in un momento in cui Washington – nonostante tutto – sembra avere abbracciato la scelta del ripiegamento. Ciò non significa – ovviamente – la fine dalla competizione fra i due Paesi. È tuttavia sufficiente ad alimentare i timori di chi – come il Giappone e la Corea del Sud – ha sinora tratto dalla rivalità fra Stati Uniti e Cina importanti rendite di posizione.

La visita di Trump in Asia lancia, infine, un messaggio importante all’Europa. Ai mesi delle polemiche aperte, fra le due sponde dell’Atlantico sembra essere subentrato una sorta di mutuo estraniamento, favorito, quest’ultimo, anche dal ripiegamento di molti Paesi del Vecchio continente sui loro problemi interni. In questa prospettiva, la “nuova” attenzione rivolta al Pacifico costituisce un chiaro segnale di come (al netto di possibili convergenze su punti specifici) il rapporto con l’Europa sia passato, per Washington, in secondo piano. Non si tratta di una novità; al contrario, questo allontanamento ha radici profonde. D’altra parte, se la “rivoluzione Trump” non fa che confermare la rotta su cui gli USA sono avviati da tempo, con l’arrivo alla Casa Bianca del tycoon newyorkese i margini per un ripensamento del “patto transatlantico” si sono fatti più stretti. Dopo gli screzi del 2002-03 e i rapporti difficili negli anni di George W. Bush, l’elezione di Barack Obama aveva fatto sperare – forse affrettatamente – in un possibile riavvicinamento fra le due sponde dell’Atlantico, riavvicinamento che si è dimostrato, invece, illusorio. Al contrario, quelli di Obama sono stati anni di divergenze su vari punti importanti (dalle relazioni con la Russia alla crisi siriana), punti che ancora oggi costituiscono altrettante criticità nei rapporti fra le due sponde dell’Atlantico. Solo alla fine del mandato, con la prospettiva credibile di un successo di Trump, tale dimensione è stata accantonata per una narrazione più attenta agli aspetti di convergenza. Questo non ha, però, modificato le basi di un rapporto che, con il venire meno del nemico sovietico, sembra essersi via via deteriorato e che proprio con Trump problematicamente insediato nello Studio Ovale sembra avere raggiunto uno dei suoi punti più bassi.

 
Gianluca Pastori, Università Cattolica del Sacro Cuore
 

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